Bijou
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 4
NON DETTO, NON NARRATO
Parigi. Thérèse è alla stazione Chatelet e la sua vita scorre incessante come il tapis roulant che trasporta i parigini per le quattro direttrici della città. Un cappotto giallo, quello di una donna sconosciuta, e il suo viso, incredibilmente uguale a quello della madre , cambiano il corso della sua esistenza che pare mettersi in faticosa marcia solo ora, quando sono ormai dodici anni che nessuno la chiama più Bijou. Decide di seguirla e di riannodare i nodi del passato col pesante presente.
Modiano affida ad una breve ma intensa narrazione in prima persona la cronistoria di questa ricerca, fa scattare nel lettore i meccanismi di tensione necessari per captare ogni indizio, prefigurare scenari, ipotizzare soluzioni e rendersi in qualche misura partecipe della tensione creativa. Eppure non ambisce a fornirci una storia dai contorni definiti, prepara il terreno per un quid di possibilità che non trova mai conferma. Bijou trova la madre? Bijou ritrova davvero i luoghi della sua infanzia? Bijou riacciuffa se stessa bambina? Bijou, rovistando tra i frammenti della memoria e i pochi cimeli che le sono rimasti, trova conferma della sua storia individuale? Bijou, dove sei Bijou? Il presente le restituisce chiavi di lettura, la illude e la sconvolge ma finalmente la scuote.
Quanto è difficile abbandonare le illusioni coltivate per dare risposta ad un abbandono? È necessario conoscere i dettagli? È bene sapere a tutti costi una verità o sperare di ricostruirla? Mi pare che Modiano con la fumosità e l’evanescenza del vissuto restituito in questa ricerca abbia voluto rispondere negativamente a tutte le questioni sollevate, lasciando al lettore la consapevolezza che è meglio dare un senso ad un’esperienza, ad un trauma, offrendo una lettura ostica ma efficace senza necessariamente riempirla di un contenuto.
Interessante modalità narrativa del non detto, del non narrato, del suggerito, potrei dire che è una scrittura che attiva la modalità di riflessione , è efficace ma sconcertante, si imprime sicuramente nella memoria di lettura.
Indicazioni utili
Mi chiamavano Bijou
Una rubrica di indirizzi e qualche foto in fondo ad una vecchia scatola di biscotti è quel che resta a Thérèse della sua infanzia irrisolta, insieme ad un mucchio di ricordi che pesano sul suo petto come un blocco di ghiaccio.
Non si era accorta di avere tanto freddo dentro, fino al giorno dell'incontro casuale, in una stazione metro parigina all'ora di punta, di una donna con un cappotto giallo molto somigliante a quella delle foto: sua madre, creduta morta fino ad allora.
Ci si chiede, una volta finito di leggere questo breve romanzo, quante verità ci siano nascoste fra le righe, lanciate come indizi che spetta al lettore mettere insieme, almanaccando sulle molteplici possibilità.
Fino a che punto è viva Thérèse? Si ha l'impressione che, morta bambina, vaghi in cerca di pace per le vie di Parigi, oppure che stia solo sognando, cullata dalle luci ad intermittenza del locale di fronte alla fredda stanza dove alloggia.
“Mi chiamavano Bijou”, è il silenzioso grido d'aiuto che la ragazza lancia a chi voglia ascoltare la sua storia, spiegando che dietro quel nomignolo non vi è nulla di dolce o affettuoso: al contrario, è un marchio che la degradava al valore di un oggetto.
Vuole capire, Thérèse, perché sua madre non l'amava, condannandola ad una prigione ghiacciata che solo un autentico contatto umano potrebbe frantumare.
La prosa è scorrevole ed essenziale, le atmosfere cupe e tipicamente modianesche, caratterizzate da una sorta di attrazione-repulsione ossessiva per un passato indecifrabile dall'odore di foglie marce.
Indicazioni utili
Top 10 opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Il punto fermo
Bijou è la storia di un abbandono, di madri che non sono in grado di svolgere il loro ruolo, di bambine sole alla ricerca di un punto di riferimento, in un pellegrinaggio tra le strade di Parigi che è un riflesso della loro inquietudine e dalla loro mancanza di un porto sicuro.
Bijou ripercorre la sua infanzia, le strade, le vie, i ricordi cercando anche lavoro presso una famiglia che assomiglia moltissimo alla sua: madre ballerina e figlia che deve badare a se stessa in qualche modo, che deve abituarsi alla solitudine. I ricordi di Bijou sono mescolati anche a un senso di rabbia che non è mai troppo esplicita ma la si può intuire da alcuni particolari, primo tra tutti i nomignoli non troppo affettuosi con cui è indicata la madre di Bijou: la Crucca, Trompe la mort. All'inizio del romanzo Bijou incontra e crede di riconoscere la madre che credeva morta, ma non bussa alla porta della sua stanza. Ora è la madre che è sola e bisognosa di una figlia. Ma Bijou vuole essere figlia e non madre di sua madre. Ha la necessità di essere protetta da una madre. Incontra una donna dolce, la farmacista, che si prende cura di lei: incontro strano per la differenza d'età tra le due non così grande e per l'età della ragazza: più di vent'anni. Bijou non riesce nemmeno a occuparsi della bambina che si trova nella sua situazione di un tempo, a cui fa da baby sitter. Sta troppo male per esserle di aiuto. Questa sua dichiarazione è terribile. Come può non esserle d'aiuto, dopo quello che ha passato un tempo?
Tutto il libro è incentrato su Bijou, anche la bambina trascurata ha un ruolo soprattutto terapeutico, le fa rivivere e superare gli insopportabili ricordi, fino alla bellissima scena finale, dove Bijou si ritrova tra le teche dei neonati, come un pesce, come un neonato, all'inizio di una nuova vita. L'atmosfera di inquietudine, tristezza, mal di vivere è la cosa che colpisce del romanzo.
Tutto quello che di solito mi spaventava , mettendomi a disagio e facendomi credere che dall'infanzia in poi non mi ero più potuta sottrarre alla cattiva sorte, tutto quanto svaniva, all'improvviso. Un musicista dai sottili baffi impomatati percuoteva con le sue bacchette i tasti in legno di uno xilofono.
E immaginavo la scena del Neant illuminato dalla luce bianca di un riflettore. Un tipo in uniforme da postiglione faceva schioccare la frusta e annunciava con voce sorda:"E ora signore e signori, ecco a voi, Trompe la mort!"
La luce si abbassava. E all'improvviso, al centro del fascio di luce del riflettore, compariva la donna dal cappotto giallo così come l'avevo vista sul metrò. Camminava lentamente verso il proscenio. Il tipo con i baffi impomatati continuava a suonare lo strumento con le sue bacchette. Lei salutava il pubblico con le braccia alzate. Ma non c'era pubblico. Soltanto qualcuno immobile e imbalsamato attorno ai tavoli.
Anche in questo romanzo bisogna pazientare per la prima metà del libro perchè la bellezza del testo si sprigiona soprattutto nella seconda metà.
Indicazioni utili
Abbracciando Bijou
Una giovane ragazza e un incontro con il passato vestito con un cappotto giallo, nel caos di una Parigi fotografata sia a colori che con i nostalgici toni seppia di un passato tormentato. Solo due righe a far da trama ad un romanzo, breve ma intenso e toccante. Un racconto sulla ricerca delle proprie radici, l’introspezione più dolorosa e profonda che si possa affrontare, allo scopo di trovare punti fermi e certezze dalle quali ripartire.
Bijou, questo il soprannome della protagonista, un appellativo che la tiene troppo ancorata ad un passato traumatico, crede di aver visto la madre in mezzo ad una folla di gente, ne è quasi certa, quella madre che credeva morta, e che invece forse è li, la segue, indaga e giorno dopo giorno tenta un avvicinamento:
"Ho provato la sensazione non tanto di aver salito con fatica una scala, quanto piuttosto di essere scesa al fondo di un pozzo".
Il pozzo ancora come metafora, come emblema del profondo guardarsi dentro alla ricerca di se stessa, ma anche come simbolo di sconfitta, dolore, frustrazione dopo aver toccato il fondo. La lotta e il conflitto con se stessa, con l’essenza della propria vita, il duello tra il passato, troppo ingombrante e struggente e il futuro incerto e privo di fondamenta.
Spesso si dice il passato è passato, volendo con questo intendere che si deve vivere il presente non potendo organizzare il futuro, ma il passato non può essere passato se è ancora vivo dentro, se non si è trovato il modo di vincerlo, metabolizzarlo, sconfiggerlo. I traumi affettivi infantili, lasciano turbe e danni che non sempre è possibile sanare.
Modiano con questa storia, come già aveva fatto in Pedigree, affronta il tema delle carenze affettive, dell’abbandono, del distacco, della sofferenza per la mancanza di quell'amore che è il più importante e formativo di ogni singola vita, quello famigliare.
Bijou, ancora alla ricerca di sua madre, in conflitto con la voglia di andare in fondo e il desiderio di "tagliare i ponti", dice:
"... a mano a mano che procedevo, il viale si faceva sempre più scuro come se quella sera portassi gli occhiali da sole."
e poi ancora :
"... vedo l'insegna luminosa di una farmacia. La guardavo fissa , per paura di piombare nell'oscurità."
Anche in questa occasione, come nella precedente, “la discesa nel pozzo”, l’autore fa vivere perfettamente la sensazione di buio, l'oscurità del proprio inconscio, della propria paura, del proprio passato.
Un libro importante, scritto con la solita pulizia e linearità che contraddistinguono lo stile di Modiano, una storia forte, condita dalle caratterizzazioni parigine di oggi e di ieri. Un romanzo che va respirato, abbracciato, come idealmente verrebbe voglia di abbracciare Bijou, con le sue fragilità, le sue vulnerabilità, le sue ferite. Una lettura intensa, che fa riflettere, che consiglio, che rimane dentro, come tutte le storie di Modiano lette fino ad ora, come tutti i suoi personaggi.