Bella del Signore
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VOI CHE SAPETE CHE COSA E' AMOR
Il titolo e l’immagine di copertina mi avevano sempre fatto pensare a “Bella del Signore” come a un romanzetto rosa, stile Collezione Harmony. E’ stato perciò con immensa sorpresa che, accintomi alla sua lettura grazie alle numerosi recensioni positive reperite in rete, ho scoperto che la monumentale opera di Albert Cohen è addirittura quanto di più simile alla “Recherche” di Proust abbia probabilmente mai incontrato in vita mia. Ma non il solo Proust può essere considerato il nume tutelare di “Bella del Signore”, perché lo stesso si potrebbe a buon diritto dire anche di Gogol o di Joyce. Al Gogol de “L'ispettore generale” e de “Le anime morte” mi ha fatto pensare la strepitosa capacità di Cohen di mettere alla berlina il mondo che fa da sfondo alla storia d'amore tra Solal e Ariane. Che si tratti del rigido e inamidato protestantesimo ginevrino rappresentato dalla puritanissima Tantlerie, la zia di Ariane, oppure del folcloristico ambiente ebraico incarnato dal truffaldino e prosopopaico Mangeclous – che cerca insistentemente di ottenere vantaggi millantando conoscenze, titoli e competenze fittizi -, del bizzarramente solenne Saltiel – che si prodiga per trovare una moglie israelita al nipote – e dagli altri “valorosi” parenti di Solal, o ancora del bel mondo alto-borghese e aristocratico insopportabilmente snob e bigotto, dedito solo ai riti mondani e alla spasmodica ricerca di relazioni altolocate, come la spocchiosa suocera di Ariane, l'acuminata satira dello scrittore svizzero affonda come il bisturi di un abile chirurgo nelle purulente piaghe della sua epoca, con esilaranti effetti comici i quali rendono la prima parte del romanzo un pirotecnico dispiegamento di raffinatissimo umorismo. E' però con la irresistibile descrizione della fauna umana che gravita intorno alla Società delle Nazioni che gli arguti sbeffeggi di Cohen, che di tale organismo è stato per anni un funzionario e i cui meccanismi e dinamiche conosceva quindi molto bene, raggiungono il loro culmine. Gli uffici e le sale di questa istituzione, vista come un organismo inutile e parassitario, posto ideale solo per distribuire sinecure ben remunerate, sono popolati, al livello più basso, da mediocri funzionari come Adrien Deume, il quale viene introdotto dall'autore (come un novello Oblomov) mentre si affanna comicamente per evitare di affrontare le fastidiose pratiche che giacciono sulla sua scrivania, utilizzando i più svariati pretesti (dalle verifiche del funzionamento del suo nuovo temperalapis allo studio delle strategie per ingraziarsi i superiori e sperare così in una promozione) pur di non iniziare a lavorare e rimandando alla fine tutto all'indomani, ma sempre nella stolida convinzione di avere adempiuto fino in fondo il proprio dovere; e, al livello più elevato, da ministri, ambasciatori, consoli e diplomatici di varia natura, i quali sono descritti come degli individui limitati, ridicolmente compresi nel proprio snobistico ruolo e che nei loro incontri fanno reciprocamente sfoggio di sorrisi posticci, di piaggerie, di atteggiamenti altezzosi e di trame meschine, a seconda del grado posseduto, dei calcoli elettorali e di altre consimili convenienze. Certe scene sono veri e propri pezzi di puro genio umoristico, come quella del cocktail in cui gli invitati mettono in atto le loro raffinate strategie per procurarsi delle proficue relazioni sociali: così gli ospiti importanti sono costretti a ricevere, con degnazione o malcelato fastidio, le attenzioni dei loro sottoposti, mentre a loro volta cercano di avvicinare e intavolare conversazione con personaggi superimportanti, i quali, mentre si sforzano di evitare di essere catturati da noiosi e improduttivi inferiori, puntano con scaltrezza gli invitati strasuperimportanti, e così via, in un carosello cinico e ipocrita condotto esclusivamente da logiche di tipo gerarchico.
Il riferimento fatto più sopra a Joyce attiene invece più propriamente allo stile del romanzo. Benché in alcune sue parti assomigli a un romanzo classico (la presentazione del protagonista Solal avviene con un linguaggio aulico e paludato, che rimanda addirittura a generi letterari anteriori al XIX secolo), “Bella del Signore” è un'opera fortemente sperimentale, proprio come l'”Ulisse”. Cohen si affida spesso allo stream of consciousness, con capitoli privi di punteggiatura che durano a volte decine di pagine e che, pur di non agevole lettura, rappresentano dei tour de force stilistici di fronte ai quali non si può far altro che rimanere estasiati e che, soprattutto, permettono al lettore di avere un ritratto psicologico dei personaggi del romanzo sorprendentemente vivo, diretto e non inquinato da considerazioni razionali. Si prenda ad esempio il primo monologo interiore di Ariane (che ricorda quello, ben più famoso, di Molly Bloom), nel quale la ragazza rivela a ruota libera il suo originalissimo mondo interiore (il disgusto per gli umilianti doveri coniugali, il rimpianto per il passato familiare, il desiderio di tornare bambina con una nonna come confidente, la natura sognatrice che la porta a immaginare storie con un eremita o un esploratore, la tentazione di fare cose proibite, sadiche e cattive come frustare senza pietà l'impudente Solal o pronunciare invano il nome di Dio, la fiera immedesimazione con le eroine dell'antichità, l'inconfessato lesbismo della sua storia con l'amica russa, e così via). In altre pagine Cohen utilizza invece l'avvicendamento nella stessa pagina dei punti di vista di due diversi personaggi, in una sorta di montaggio alternato in cui, senza alcuna soluzione di continuità i monologhi interiori di ciascuno si succedono l'uno all'altro. Verso la fine del libro, poi, vi è un'altra bellissima sequenza di affascinante virtuosismo stilistico: Ariane e Solal sono seduti nella hall dell'albergo, e alle loro orecchie arrivano, da tre signore che chiacchierano sferruzzando non lontano da loro, brandelli di conversazione, che Cohen riporta con prosa fluviale, senza segni di interpunzione, mischiando le oratrici, riproducendo il flusso caotico e sovrapponibile delle parole che attraversano lo spazio in libertà (ed è bellissimo riuscire a ricomporre da questi frammenti, come in un puzzle, il senso dei dialoghi estranei). Con questi ed altri espedienti retorici, come le sporadiche ma significative ellissi e il mimetismo con cui affronta personaggi appartenenti ai ceti sociali e culturali più diversi (si pensi alla spericolata alternanza dei registri stilistici quando si passa dal linguaggio solenne e letterario di Ariane e quello spontaneo e sgrammaticato della domestica Mariette), Cohen dimostra di essere uno scrittore dal talento purissimo e con pochi eguali nella storia della letteratura.
Se “Bella del Signore” è considerato (almeno in Francia, perché in Italia è stato ingiustamente sottovalutato, se non addirittura colpevolmente ignorato) uno dei capolavori del XX secolo lo si deve alla storia d'amore che è al centro della narrazione. Quella di Ariane e Solal, che il sottotitolo del libro appella come “passione assoluta”, è a mio avviso – so di fare una affermazione quasi blasfema – la storia d'amore “definitiva” della letteratura moderna, con buona pace di tutti i vari “Cyrano di Bergerac”, “Anna Karenina”, “Madame Bovary”, “Il dottor Zivago” e “L'amore al tempo del colera”. Da questo punto di vista, “Bella del Signore” può essere considerata una vera e propria fenomenologia del sentimento amoroso, che la penna cinica ma onesta di Cohen descrive con esattezza psicologica e vibratile sensibilità, attenta a cogliere tutte le più impercettibili sfumature e le più indescrivibili emozioni, ancor più e ancor meglio di quello che Proust, che avevo non a caso citato all'inizio della recensione (e che nel libro è ironicamente criticato dal protagonista come uno dei simboli di tutto ciò che, nelle snobistiche conversazioni dei salotti buoni, è considerato, insieme a Kafka, Bach, Mozart o Picasso, un argomento intellettualmente appropriato, nobile ed elevato), di quello che Proust – dicevo – aveva fatto in “Un amore di Swann”. Certo, quello che leggiamo in “Bella del Signore” è una storia vecchia come il mondo, già scritta milioni di volte nel corso di decine di secoli. Se la si volesse riassumere, la sua trama non si discosta poi così tanto dalle molte che l'hanno preceduta, eppure Cohen riesce a conferirle una tale carica emotiva e una tale impressione di verità che i baci, le carezze, gli amplessi e le gelosie di Solal e di Ariane ci sembrano quelli della prima coppia del mondo. Inoltre Cohen è straordinariamente bravo ad alternare, con pari dignità, i punti di vista maschile e femminile (anche se è facile intuire che la visione pessimistica dell'autore abbia influenzato maggiormente il personaggio di Solal, che può essere definito la coscienza critica del romanzo e difatti nella seconda parte acquista una sorta di predominanza narrativa), oltre che a far trapelare all'interno dell'universo amoroso, che per sua natura è egotistico e autosufficiente, gli echi di un'epoca (siamo nella seconda metà degli anni '30, nel pieno dell'antisemitismo hitleriano) che sembra precipitare sempre più velocemente, in macabra sincronia con la coppia, verso la più immane delle tragedie. La storia d'amore di Ariane e Solal infatti attraversa tutte le fasi della parabola sentimentale, ma si può dire che essa sia segnata fin dall'inizio, cioè da quell'inusuale corteggiamento in cui l'uomo, proprio mentre scommette di sedurre la riluttante ragazza di lì a poche ore, svela quanto siano meschine le dongiovannesche strategie di seduzione, basate su una “gorillesca” esibizione di forza e di potere. L'avere fatto innamorare di sé Ariane, come aveva preventivato, lascia in Solal una sorta di delusione e di disgusto, in quanto egli è consapevole di dovere il suo successo proprio a quelle doti (la bellezza, la salute, la ricchezza) che, nella sua invettiva, aveva appassionatamente denigrato. Questa sensazione è come un'ombra che rimane, mai del tutto rimossa e pronta a riemergere in qualsiasi momento, nel subconscio di Solal, anche quando, nell'estasi degli inizi, il loro amore sembra veleggiare incontrastato verso orizzonti di ineguagliabile felicità. Assistiamo infatti alla dedizione quasi religiosa con cui gli amanti, giovani, belli e innamorati, si concedono, come in una cerimonia sacra, l'uno all'altro, partecipiamo alle dolci delizie delle attese, allo stupore e alla meraviglia di ritrovarsi soli, alla voglia di raccontarsi reciprocamente, al desiderio di apparire perfetti in ogni istante. Ma l'atmosfera idilliaca non dura in eterno e l'autore ce lo ricorda capovolgendo l'innocente spensieratezza di queste pagine in un climax progressivamente più cupo e funereo, con un terribile flashback sull'inizio della persecuzione degli ebrei nella Germania nazista o con repentine e allarmanti considerazioni sul “memento mori”. Quando poi Solal, perso il prestigioso lavoro presso la Società delle Nazioni ed anche la cittadinanza francese (l'antisemitismo non era certo all'epoca una faccenda solo tedesca, come il caso Dreyfuss aveva insegnato), convince Ariane a lasciare il marito e a convivere con lui, il sogno d'amore che entrambi avevano bramato (essere sempre insieme, in una perpetua luna di miele) si rivela meno allettante di quello che sembrava loro quando si scrivevano infuocate lettere d'amore in attesa del prossimo, clandestino appuntamento. La forza dell'abitudine inizia a lavorare subdolamente come l'acqua del fiume che smussa e leviga le acuminate rocce della riva, e l'inconfessata paura di essere imprigionati in una trappola (Cohen usa illuminanti espressioni come “murato vivo nell'amore”, “condannato ai lavori d'amore a vita”) si fa gradualmente, ancorché inconsciamente, strada nell'animo. L'obbligo di essere sempre al massimo, sempre desiderabili, di fare continuamente, come un pavone, “la ruota sessuale” si accompagna all'inconfessato sollievo provato nei rari momenti di temporanea solitudine, quando il partner dorme o fa la toeletta. La passione sublime degli inizi si trasforma gradualmente in rito, in cerimoniale (l'aria de “Le nozze di Figaro” usata da Ariane per convocare l'amante nella propria stanza), e poi degenera in commedia da recitare come meglio si può. I due amanti sono costretti a fingere il desiderio, a simulare il piacere, sottoposti alla subdola e insopportabile tortura di dover ricevere in continuazione attenzioni e tenerezze, con “l'obbligo di vivere in passione, con prove ripetute e inoppugnabili”. La chiusura della coppia al mondo esterno si rivela micidiale, come una campana di vetro calata sui due che fa progressivamente venir meno l'ossigeno vitale. Costretti alla vita a due, sapendo in anticipo cosa avverrà il giorno seguente e tutti i giorni a venire, “non potendo parlare che d'amore, non potendo far altro che l'amore”, con l'altro che di colpo viene percepito come un creditore esigente, Ariane e Solal si trovano trasformati da amanti che si giuravano amore eterno in una sorta di triste surrogato coniugale (Solal si sente addirittura, paradossalmente, “cornificato” dal se stesso, più attraente e più desiderabile, di qualche mese prima). Ed ecco quindi i baci dati ormai solo per riempire il silenzio, il fingere comprensione, interesse e sentimenti elevati per cercare di nascondere uno sbadiglio, di mascherare una noia mortale, la nostalgia dissimulata per una mediocre vita mondana (per combattere la quale bisogna stordirsi in continuazione, cercando sempre nuovi “surrogati del sociale” come il teatro o il cinema, l'equitazione o lo shopping) e i tentativi di rimandare gli obblighi amorosi senza urtare la sensibilità del partner. Arrivare alla fine di ogni giornata è una pena sovrumana, come camminare perennemente su una corda tesa sopra un baratro, e la compassione per ciò cui si è ridotta la loro vita a due affiora sempre più spesso dal loro inconscio, nonostante gli sforzi di confermarsi esteriormente all'altezza dell'amore passionale dei primi giorni, recitando il ruolo fintissimo degli innamorati in adorazione. La storia d'amore tra Solal e Ariane è una lenta agonia, una via crucis di progressiva degradazione in cui si cerca di occultare ogni vergogna sotto una vergogna ancora più grande, di mascherare la commiserazione dietro atti di crudeltà gratuiti (come quando Solal, colto da una immotivata gelosia retrospettiva, rinfaccia alla sua donna di avere avuto un altro amante prima di lui). Eppure non si può negare che Solal e Ariane ce l'abbiano messa davvero tutta, che anche il commovente, tristissimo finale è a suo modo un fatale, estremo tentativo di tener fede alla loro iniziale promessa d'amore. Le parole disperate di Solal (“Maledetto amore dei corpi, maledetta passione”) risuonano come campane a morto nelle orecchie del lettore: quanto più desiderabile sarebbe stato per queste povere anime sofferenti il destino mediocre, anonimo di un amore prosaico e normale! In una sua famosa canzone Ivano Fossati aveva detto che la costruzione di un amore è come un altare in riva al mare. Ebbene, per Solal e Ariane, tragici e imperfetti eroi di una passione che ha osato volare troppo in alto e che, come Icaro, si è bruciata le ali per essersi avvicinata troppo al sole dell'irraggiungibile perfezione, questo altare è stato edificato (imperdonabile hybris) sul bagnasciuga di una spiaggia inesorabilmente spazzata dai marosi del destino.
Post scriptum: Per ironia della sorte ho finito di leggere “Bella del Signore” proprio il giorno di San Valentino. Il dio della letteratura riserva a volte a noi lettori delle coincidenze davvero beffarde!