Babilonia
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Recensione della Redazione QLibri
il dolore della solitudine
“Non avere nessuno significa non avere nemmeno se stessi. Chi ti ama ti rilascia un certificato di esistenza” (p.121)
Élisabeth, sessantadue anni, un lavoro soddisfacente e una famiglia tranquilla, sente che la vita le sta sfuggendo di mano, senza emozioni, senza gioie, nel rimpianto di un amore giovanile che le ha trasmesso la passione per la fotografia; le piace sfogliare “The Americans”, di Robert Frank, “il libro più triste del mondo”: osserva i volti, gli oggetti, il paesaggio, incantata dal fascino dello scatto fotografico che pietrifica ed immortala ciò che è destinato a dissolversi.
Jean-Lino Manoscrivi, uomo mite e pacifico, “con la biro e il suo giornale e soprattutto il suo cappello”, è un amante delle corse dei cavalli che, nella monotonia della routine, gli danno un brio altrimenti inesistente; non prende mai l'ascensore, Jean-Lino, perché soffre di claustrofobia. Si incontrano così, coinquilini in un palazzo della banlieue parigina, salendo e scendendo le scale, lei fino al quarto piano per tenersi in forma, lui fino al quinto.
Sono entrambi coniugati: Élisabeth con il posato Pierre, Jean-Lino in seconde nozze con la stravagante Lydie, nonna di un pestifero nipotino, Remi, con cui Jean-Lino vorrebbe instaurare un'intesa affettuosa. Con il vicino di casa, Élisabeth ha un rapporto di cortesia -si danno del lei- ma anche di reciproca simpatia e confidenza, in una parola: di amicizia.
Per “creare legame” e vivacizzare la quotidianità, Élisabeth organizza una festa di primavera, un'occasione di condivisione per stare in allegria. Invita anche Jean-Lino e sua moglie a cui chiede la cortesia di prestarle delle sedie. Tutto procede tranquillamente, anche troppo: la festa non decolla, la conversazione languisce; Lydie, animalista convinta, chiede l'origine del pollo che è stato servito e Jean-Lino ne approfitta per fare delle battute e qualche pantomima sulle idee, a suo parere ridicole, della moglie. Terminata la serata e congedati gli ospiti, Élisabeth e Pierre, già a letto, sentono suonare il campanello: è Jean-Lino che, sconvolto, afferma di aver commesso un omicidio. Élisabeth, per curiosità, per incoscienza, ma anche per un sincero affetto nei confronti dell'amico, si lascia coinvolgere dalla richiesta di aiuto di Jean-Lino.
A questo punto il romanzo si tinge di nero: alla descrizione del crimine fanno seguito gli interrogatori e le indagini giudiziarie di cui, ovviamente, è bene non anticipare nulla per non rovinare il piacere della lettura. Una precisazione: i toni sono quelli della commedia grottesca, con situazioni paradossali in cui al dettaglio macabro si associa un sorriso.
“Babilonia”, della nota e premiata drammaturga, scrittrice e sceneggiatrice francese Yasmina Reza, è un romanzo a metà strada tra il filosofico e il poliziesco, un testo in cui, più dei fatti, contano i pensieri, i sentimenti, la fine analisi psicologica dei personaggi e le motivazioni consce e inconsce che li spingono ad agire. Le tematiche affrontate sono molteplici: l'ineluttabilità dello scorrere del tempo, il peso e l'influenza dei ricordi, l'incomunicabilità nella coppia vista solo come vano "tentativo di colmare la propria solitudine con un'altra solitudine", l'assurdità di un'esistenza costruita sulle illusioni e su quelli che l'autrice definisce “concetti vuoti” (creare legame, tolleranza, dovere della memoria, elaborazione del lutto); amara la riflessione sul linguaggio, sul peso e sul potere che le parole hanno di ferire in un modo più subdolo e crudele di un'arma. Parole che possono però anche consolare e conferire “un senso di appartenenza a un insieme oscuro”, come i versetti del salmo che Jean-Lino, da bambino, sentiva leggere da suo padre “Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion” (p.112). L'autrice resta sempre super partes, si limita a scattare istantanee sulla realtà, facendo propria l'affermazione del fotografo G. Winogrand "Il mondo non è affatto ordinato. E' un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto".
“Babilonia” è un testo scritto in prima persona da una voce narrante, quella di Élisabeth, che dapprima getta le premesse della vicenda, poi ricostruisce i fatti riferendo la confessione di Jean-Lino, infine conclude riportando l'interrogatorio della polizia; ai vivaci dialoghi si alternano flashback e profonde riflessioni in una prosa efficace, incisiva, sferzante, capace di strappare un sorriso amaro di fronte alle miserie e alle follie dell'uomo.
Ho trovato questo romanzo molto avvincente, l'ho letto tutto d'un fiato; mi hanno coinvolta soprattutto i personaggi: Élisabeth, intraprendente, positiva e capace di gesti di sorprendente bontà ha catturato fin da subito la mia simpatia, mentre per Jean-Lino, carnefice e vittima di un assurdo destino, non si può che provare compassione e tenerezza; un testo che mi ha fatto riflettere sui piccoli grandi drammi che ognuno di noi vive nella monotonia di ogni giorno, drammi che rischiano di sconvolgerci l'esistenza, ma di cui, forse, talvolta sentiamo il bisogno perché, come afferma un'amica di Élisabeth, "le tragedie della vita quotidiana ti riempiono la giornata" (p. 30)
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L'esule Jean Lino
“Quando Jean Lino era piccolo, ogni tanto dopo cena suo padre prendeva il libro dei Salmi e leggeva un passo ad alta voce [..] «Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion».”
È il salmo 136 pervaso di dolore e di nostalgia per qualcosa che si è perso, è il canto degli esuli.
Gli uomini hanno sempre perso qualcosa o hanno sempre qualcosa da perdere.
“Non sono i grandi tradimenti a provocare la malinconia, ma il ripetersi di perdite infime.”
Èlisabeth ha un vicino di casa, un marito, una sorella, una madre che muore, spesso soffre della malattia dei ricordi.
Ha dei giorni si e dei giorni in cui subisce la minaccia del tempo, l’ansia di non poterlo fermare o tornare indietro, con la sensazione di averne perso un pezzo.
“Certi giorni, quando mi sveglio, la mia età mi prende alla gola. La nostra giovinezza è morta. Non saremo mai più giovani. È questo mai più che è vertiginoso.”
Jean Lino ha una vicina di casa, una compagna hippie, pseudo vegetariana, cantante jazz e un gatto Edoardo, che come si intuisce dal nome, comprende solo l’italiano.
Un uomo allegro ma non troppo, attento, che vive senza fare troppo rumore.
Una sera, una festa: tartine, cocktail, risate forzate, argomenti mancanti, silenzi imbarazzanti.
Tutti vanno via, la festa è finita.
Un omicidio nella notte, ma senza aloni di mistero, subito confessato.
I due vicini si incontrano e si scambiano bocconi di umanità nuda, senza filtri, istintiva e bestiale, con fuorviante naturalezza.
Una forma delicata e calma avvolge l’intreccio. L’autrice Yasmine Reza sottolinea così l’umana spontaneità dei gesti e delle parole, persino dell’omicidio che è sotto gli occhi di tutti un istinto, seppur moralmente deprecabile, dell’uomo.
Jean Lino è uno di noi: gli scatti d’ira e di impazienza nascono proprio dalle situazioni meno drammatiche e da quelle che appaiono più insignificanti, le classiche gocce che fanno traboccare un vaso bello pieno di vita, di sopportazione e di incomprensioni.
Èlisabeth è una donna che si presenta fin da subito come poco eccezionale ma profondamente portata per l’umanità. Comprende e accetta il gesto di Jean Lino.
Quello che il conoscente ha commesso non cancella il ricordo del Jean Lino conosciuto e frequentato, anche piacevolmente, nei giorni precedenti.
Non ha paura, anzi, quasi lo compatisce, non con quel senso di pietà tipico del sentimento comune bensì secondo il significato del termine compatire, soffrire e sopportare insieme.
È come se Èlisabeth dicesse “sarei stata capace di farlo anche io, tranquillo”.
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Il pericolosissimo pollo appollaiato
E' il primo romanzo che leggo della Reza e devo dire che le prime pagine mi hanno piacevolmente colpito per la freschezza della scrittura e di alcuni passaggi particolarmente interessanti. Poi però la buona impressione si è fermata lì e il modo di scrivere: frasi semplici e brevi e per associazioni di ricordi (un po' come fa la Tartt) mi ha subito stancato. L'incipit è la parte di gran lunga migliore. La storia fa acqua. Le situazioni dal punto di vista psicologico mi sembrano poco credibili come il dialogo tra Elizabeth e Jean Lino di fronte al cadavere. Non mi piace nemmeno il tipo di solidarietà proposto: una solidarietà monella e un po' irresponsabile, dal sapore tardo adolescenziale. E' per me vagamente sgradevole, il modo in cui vengono espressi giudizi o opinioni sui vicini da Elizabeth e la ricerca di un rapporto particolare di Elizabeth con Jean Lino, come se l'occhiata complice del vicino potesse compensare i due della gabbia esistenziale in cui hanno trascorso e trascorreranno una vita intera ( galera o non galera). I dialoghi simulano una profondità di relazione e di interazione che manca totalmente. La Reza non mi è sembrata una scrittrice indimenticabile. A me però la leggerezza non piace nei romanzi. Magari per l'estate va bene come lettura poco impegnativa.