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Autobiografia di mia madre Autobiografia di mia madre

Autobiografia di mia madre

Letteratura straniera

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Jamaica Kincaid appartiene alla schiera degli autori che, nati alla «periferia dell’impero» (nel suo caso ad Antigua, nei Caraibi), hanno immesso nuova linfa nella letteratura di lingua inglese. Fin dall’inizio la sua voce si è rivelata penetrante, precisa, inconfondibile. Ma con l’Autobiografia di mia madre si è d’improvviso arricchita di tonalità cupe e vaste risonanze, quasi giungesse a noi portata dal «vento nero e desolato» che incessantemente soffia alle spalle della protagonista. È una storia di solitudine e insanabile risentimento, di insofferenza per la «stanza nera del mondo», che assume qui il profilo di paesaggi lussureggianti. Le vicende di Xuela, di madre cariba e padre per metà scozzese e per metà africano, abbandonata insieme a un fagotto di panni sporchi dopo che la madre è morta di parto, dispiegano un variegato itinerario nell’infelicità, dove le durezze del mondo si scontrano con un carattere roccioso, torvo e visionario. E a ogni passo la vita di Xuela si intreccia con quella di un fantasma, la madre non conosciuta, colei che non ha potuto raccontare la sua vita e l’ha attraversata come «fossile vivente» del popolo caribo.



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Autobiografia di mia madre 2022-02-10 12:26:35 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Febbraio, 2022
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Una donna sospesa nel vuoto

“Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato. […] Al principio di me c’era questa donna dal viso che non avevo mai visto, ma alla fine di me non c’era niente, non c’era nulla fra me e la stanza nera del mondo.”

Inizia così questo libro, questa autobiografia che fin dal titolo triangola i protagonisti del testo e proietta una vita sullo sfondo assente di un’altra vita. Perché queste pagine che ripercorrono la vita di Xuela sono in fondo la ricerca impossibile di quel viso che non ha mai avuto, del viso della madre morta mentre le stava dando la luce e la ricerca di questo viso è il tentativo di scoprire le radici di se stessa. Radici sospese nel vuoto della morte e rivolte al vuoto della fine, radici senza terreno che cercano di fiorire ad Antigua, in questi Caraibi dai colori crudi e dai violenti chiaroscuri, in questi Caraibi che odorano di terra bagnata, di forze primitive e di crudeltà gratuite. E la scrittura concentrica di Jamaica Kincaid, che si propaga da un centro verso confini sempre più distanti, appena dissonante nel suo incedere spesso anacolutico, nelle sue improvvise alternanze tra laconicità e distensioni, ci accompagna nelle profondità di una protagonista della cui femminilità mai si dimentica: è il corpo di Xuela che ci appare nelle sue ferite, nei suoi tormenti, nella sua tornita bellezza, nella sua provocante spontaneità, il corpo di una donna che ci si dispiega di fronte nei suoi odori, nella sua maturità, nella sua progressiva scoperta. Tutto, dai cambiamenti dell’adolescenza, alla prima esperienza sessuale, fino ad una terribile e indelebile scena di aborto, viene descritto come dall’interno della terra, risuona in un utero cavo e dialettizza il libro una una intensa riflessione sulla vita e sulla morte che passa inevitabilmente per la maternità. Quasi tutte le donne di questo libro sono sterili o muoiono generando la vita e il peso di questa incombenza, il peso di questo potere che è una maledizione, il potere di dare la vita e ricevere forse in cambio la morte incombe come una tempesta nera e feroce sulla protagonista che non ci risparmia mai il dolore di questa ineluttabilità.

Chi mi conosce sa della mia predilezione del tutto spontanea per le autrici rispetto agli autori, ma credo di essere oggettivo quando colloco questo libro tra i più belli che mi sia capitato di leggere di recente: il senso profondo e abissale della vita e della morte, l’incombenza del destino, la forza violenta di questa femminilità che divora se stessa e ancora il senso di assoluta risolutezza con sui la Kincaid fissa lo spazio indefinito dell’eternità spalancata dietro e di fronte a lei hanno la forza di far tremare il lettore fino alle ultime pagine. Alcuni hanno paragonato questo libro ad un altro celebre testo della stessa tradizione, “Il grande mare dei sargassi”, ma qui la grana è più fine, la forza più intensa, lo stile più ipnotico, l’incedere più magnetico. In questo miracoloso equilibrio tra asciuttezza del tono, impassibilità dell’accadere e amazzonico attaccamento alla vita sta il fascino di questo libro che mi sento di raccomandare a gran voce.

“Dentro di me resta la voce che non ho mai sentito, il viso che non ho mai visto, l’essere dal quale io vengo. Dentro di me ci sono le voci che avrebbero dovuto uscire da me, i volti che non ho mai lasciato formarsi, gli occhi ai quali non ho mai consentito di guardarmi. Questo raconto è il racconto della persona alla quale non è mai stato permesso di essere e il racconto della persona che io non mi sono concessa di diventare.”

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