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Il palcoscenico è deserto. Il grido echeggia da dietro le quinte. Il pubblico in sala a poco a poco si zittisce. Un uomo con gli occhiali, di bassa statura e di corporatura esile, piomba sul palco da una porta laterale. Signore e signori un bell’applauso per Dova’le G.! C’è qualcosa di strano nella serata. Tra le sedie c’è un intruso, trascinato fino a quella cittadina poco raccomandabile da una telefonata inattesa: è l’onorevole giudice Avishai Lazar, amico d’infanzia di Dova’le. Deve giudicare la vita intera di quello che, lo ricorda solo ora, era un ragazzino macilento e vivace, con l’abitudine stramba di camminare sulle mani. Dova’le sul palco si mette a nudo, e imprigiona la sala nella terribile tentazione di sbirciare nell’inferno di qualcun altro. Nella storia di un bambino che camminava a testa in giù e riusciva ad affrontare il mondo. Dal fondo del palcoscenico Dova’le scocca il suo sorriso più smagliante ed è pronto a consegnare al pubblico tutto quello che ha: lo spettacolo della sua storia.



Recensione della Redazione QLibri

 
Applausi a scena vuota 2014-11-13 22:57:15 annamariabalzano43
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Novembre, 2014
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Da Shakespeare a Pinter


Audace nella struttura l’ultimo romanzo di David Grossman. Servendosi dei mezzi espressivi tipici del cabaret, l’autore mette al centro della scena un singolare personaggio, Dova’le, che con la sua arguzia si rivolge direttamente al pubblico, a poca distanza da lui. Il monologo del protagonista si alterna, nel corso della narrazione, alle osservazioni e ai ricordi del giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, che ha accettato con molte perplessità di assistere allo spettacolo. Ciò che appare immediatamente evidente è la volontà dell’attore di porre il suo pubblico di fronte alla realtà spogliata di ogni falsa apparenza. Prima di addentrarsi nel racconto della sua vita egli si rivolge infatti a singoli individui in sala, senza risparmiare loro osservazioni dure e talvolta offensive. Appare qui subito evidente l’eredità shakespeariana del personaggio del clown e della sua funzione di denuncia. Dova’le, infatti si presenta subito come un buffone al centro della scena. Con l’intento di alleggerire la rappresentazione, egli alterna al racconto drammatico vere e proprie barzellette, più gradite al pubblico. Non a caso informa quasi subito lo spettatore della sua abitudine giovanile di camminare sulle mani e vedere il mondo alla rovescia. Questo atteggiamento bizzarro nasconde una tragica visione della vita. Sin da bambino, infatti, Dova’le non riesce a stabilire un rapporto armonioso con la realtà che lo circonda. Dal racconto del suo tormentato viaggio attraverso il deserto per ritornare a casa dal campeggio militare dove si era recato, richiamato per la morte d’un genitore, emerge tutta la sua disperata solitudine accentuata dall’angoscia di non sapere se sia morto suo padre o sua madre. Ritornano così alla sua mente fatti della vita quasi sepolti in un piccolo spazio di memoria dove è sempre presente il dramma della Shoa.
Come i personaggi di Pinter, Dova’le è chiuso anch’egli nella sua “stanza dell’oppressione” nella quale egli intende trascinare anche il suo pubblico persuadendolo della necessità della ricerca della verità. Immergersi nel suo passato gli serve per denunciare insieme ai suoi limiti, anche i limiti e le colpe di chi lo aveva conosciuto nel passato e aveva mostrato indifferenza verso il suo destino.
Il contatto diretto con il pubblico agevola la comunicazione. Solo di tanto in tanto Dova’le si rifugia in una poltrona, unico arredo del palcoscenico, che ha lo scopo di sottolineare il limite entro cui egli stesso è chiuso. Il suo spettacolo tuttavia non è gradito a tutto il suo pubblico. Una parte di esso desidera rifugiarsi in qualcosa di illusorio e sfuggire alla cruda rappresentazione della realtà.
La presenza del giudice Avishai, tanto desiderata da Dova’le, al suo spettacolo, assume un significato più sottile, proprio alla fine del monologo. Giudicare senza partecipare emotivamente non è sempre garanzia di equilibrio e obiettività. Giustizia non è negazione di umanità. Dova’le desidera che l’amico d’un tempo si senta finalmente partecipe della sua storia e ne dia un giudizio sereno.
“Per lo meno rimarrà qualche parola di me […] Come la segatura dopo il taglio di un albero ….”
Personalmente, egli ha finalmente preso coscienza del significato dei drammi vissuti. Rivisitare il passato gli ha permesso di penetrare nell’animo delle persone che ha amato. Presupposto essenziale per non dovere più camminare a testa in giù.

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Applausi a scena vuota 2015-01-04 08:51:52 Claudia Falcone
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Claudia Falcone Opinione inserita da Claudia Falcone    04 Gennaio, 2015
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Il Grossman che non ti aspetti

Soltanto un grande scrittore può restare se stesso pur cambiando totalmente il proprio registro linguistico. Usando l'espediente dello spettacolo di cabaret, e attraverso un linguaggio che per lunghi tratti non sembra il suo (ma non fatevi ingannare), Grossman ci regala una nuova intensissima storia, ci parla col linguaggio a cui in realtà siamo abituati. Scrittura sempre intima e lieve, la sua, ma capace di squarciare l'anima. Per tutte le 176 pagine noi siamo lì, assistiamo allo spettacolo di Dova'le, e riviviamo con lui quel terribile viaggio della sua infanzia, quel tragitto che ha segnato per sempre la sua vita. Dova'le ci mostra se stesso, si mette a nudo, chiede al pubblico e al suo amico giudice una sentenza, là dove lui si è già condannato da solo. Grossman è sempre grandioso, nel saper scandagliare dolcezze e brutture dell'animo umano, nel saper andare a fondo fino a quei sentimenti che restano nascosti, sepolti, a cui non sappiamo dar parole. E alla fine la sua scrittura ti scuote dentro, ma esercita anche tutta la sua immensa forza catartica, purificatrice.

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