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Apeirogon

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Bassam Aramin è palestinese. Rami Elhanan è israeliano. Il conflitto colora ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalle strade che sono autorizzati a percorrere, alle scuole che le loro figlie, Abir e Smadar, frequentano, ai checkpoint. Sono costretti senza sosta a negoziare fisicamente ed emotivamente con la violenza circostante. Come l’Apeirogon del titolo, un poligono dal numero infinito di lati, infiniti sono gli aspetti, i livelli, gli elementi di scontro che vedono contrapposti due popoli e due esistenze su un’unica terra. Ma il mondo di Bassam e di Rami cambia irrimediabilmente quando Abir, di dieci anni, è uccisa da un proiettile di gomma e la tredicenne Smadar rimane vittima di un attacco suicida. Quando Bassam e Rami vengono a conoscenza delle rispettive tragedie, si riconoscono, diventano amici per la pelle e decidono di usare il loro comune dolore come arma per la pace. Nella sua opera più ambiziosa, Colum McCann crea Apeirogon con gli ingredienti del saggio e del romanzo, e ci dona un racconto nello stesso momento struggente e carico di speranza. Un romanzo che ha la forma di un poligono con un numero infinito di lati, che attraversa i secoli e i continenti, cucendo insieme il tempo, l’arte, la natura e la politica, per raccontare l’epica storia vera di due uomini divisi dal conflitto e riuniti dalla perdita.



Recensione della Redazione QLibri

 
Apeirogon 2021-07-31 14:58:42 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    31 Luglio, 2021
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“Non finirà finché non parliamo”

Tra le emozioni della narrativa e le nozioni del saggio, senza forse tralasciare nemmeno ricostruzioni riconducibili al genere della biografia, il libro di Colum McCann si presenta al lettore, fin dalle primissime pagine, come “un romanzo ibrido”. È lo stesso autore, nato in Irlanda e residente da tempo negli Stati Uniti, a sottolinearne la natura al termine di questa sua lunga opera che prende pian piano la forma di un poligono dal numero infinitamente numerabile di lati. “Apeirogon”, appunto, curioso, laconico, perfetto titolo preso in prestito dalla geometria.

Apparso in lingua originale nel 2020, il volume è stato pubblicato in Italia da Feltrinelli lo scorso mese di marzo. La nota introduttiva di McCann non lascia dubbi su quanta realtà vi sia nel contenuto delle sue oltre cinquecento pagine che – non è da escludere – avrebbero potuto continuare ancora a oltranza il loro racconto, proseguire seguendo una miriade di strade che si intersecano fra loro, anche perché il tema affrontato è senz’altro ricco di vicende e sfaccettature diverse. La “fiction”, dunque, si riduce a ben poca cosa attorno ai due protagonisti che si muovono sullo sfondo della purtroppo incancrenita questione israelo-palestinese, ormai da più di sette insanguinati decenni al centro delle cronache internazionali e all’attenzione, non sempre in verità così attenta, delle diplomazie occidentali che, a ben vedere, nulla hanno risolto. Bassam Aramin e Rami Elhanan, arabo palestinese il primo ed ebreo israeliano il secondo, si ritrovano accomunati dal dolore e dalla perdita: le rispettive figlie, Abir e Smadar, seppur a distanza di due lustri, sono cadute vittima della violenza e dell’odio più assurdi che generano lutti da ambo le parti. Era il 2007 quando Abir, all’età di soli dieci anni, dopo aver acquistato un braccialetto di caramelle del valore di due shekel (“le caramelle più costose del mondo”), in prossimità della scuola venne colpita alla testa da un proiettile di gomma sparato dal fucile di un giovane soldato israeliano a bordo di una jeep; Smadar, invece, era quasi quattordicenne allorché, nel 1997, un attentato suicida a opera di tre palestinesi in Ben Yehuda Street a Gerusalemme aveva reciso la sua giovane vita.

La penna di McCann si sofferma in modo particolare su questi drammatici fatti, ritornandoci a più riprese in tutto il corso della narrazione, quasi sezionandoli con estrema cura nel tentativo di estrarne tutti i dettagli, persino quelli più macabri, come il recupero delle parti dei cadaveri disseminate nell’area dell’attentato, addirittura di un bulbo oculare posatosi sulla tenda di un caffè. Ogni singolo elemento, dal giubbotto degli attentatori alle rotte migratorie degli uccelli, dallo zaghareet a “Le mille e una notte” o al Casinò di Gerico, solo per fare pochissimi e assai differenti esempi, viene sviscerato per dare subito il via a rivoli di associazioni e relative annotazioni, andando spesso a cogliere curiosità e fatti vicini o molto lontani nel tempo, anche riportando alla luce storie singolari come quella del funambolo francese Philippe Petit. Tutto questo sempre ruotando attorno alla morte delle due ragazze e alla vita dei loro padri, uniti, oltre che dalla tragedia, pure dal convincimento che un altro modus vivendi sia possibile e che il dialogo e l’accettazione dell’altro, in quanto essere umano, possano essere la sola via d’uscita dalla spirale di morte e vendetta che avvelena la Terra Santa. La trascrizione delle parole di Rami e Bassam, tratta da alcune interviste e riportata nelle pagine centrali del libro, induce a riflettere come non mai e, specie nel caso del primo, costituiscono un vero pugno nello stomaco per lo stato ebraico che dal 1948, come riconoscono anche tanti attivisti israeliani tacciati immancabilmente di tradimento, attua una vera e propria occupazione ai danni di un popolo, quello palestinese, privato della propria dignità.

«Mi chiamo Rami Elhanan. Sono il padre di Smadar. Sono un graphic designer di sessantasette anni, un israeliano, un ebreo, un gerosolomitano di settima generazione. […] Quando qualcuno uccide tua figlia vuoi mettere le cose in pari. Vuoi uscire e uccidere un arabo, qualsiasi arabo […] Poi dopo un po’ cominci a farti delle domande […] E ti chiedi, Uccidere qualcuno mi restituirà mia figlia? […] Non tornerà, la tua Smadari. E a questa nuova realtà ti ci devi abituare. Pertanto, in un lento passaggio graduale e complesso, ti sposti dall’altra parte: cominci a chiederti, cosa le è successo, e perché? È difficile, è terribile, è estenuante. Come è potuta succedere una cosa simile? Cosa potrebbe portare qualcuno a essere tanto arrabbiato, folle, spietato, disperato, e così stupido e patetico, da essere disposto a farsi esplodere accanto a una ragazzina di nemmeno quattordici anni? Come fai a capire un simile istinto? Dilaniare il tuo stesso corpo? […] Che cosa lo ha spinto? […] Chi gli ha insegnato una cosa simile? Gliel’ho forse insegnata io? Gliel’ha insegnata il suo governo? O il mio governo? […] Certe persone hanno interesse nel mantenere il silenzio. Altre hanno interesse nel seminare odio basato sulla paura. La paura produce denaro, produce leggi, prende la terra, costruisce insediamenti […] Ai nostri politici piace spaventarci. A noi piace spaventarci l’un l’altro. Usiamo la parola sicurezza per tappare la bocca al prossimo. Ma non si tratta di sicurezza, si tratta di occupare la vita di qualcun altro. […] L’Occupazione non è né giusta né sostenibile. Ed essere contro l’Occupazione non è in alcun modo una forma di antisemitismo. […]»

«Mi chiamo Bassam Aramin, sono il padre di Abir. Sono un palestinese, un musulmano, un arabo. Ho quarantotto anni. […] Da bambino pensavo che essere palestinese, musulmano, arabo, fosse una punizione divina. E me la portavo dietro come un grosso peso intorno al collo. Da bambino non fai che chiedere perché, ma da adulto, di chiedere perché te lo sei ormai dimenticato. Accetti e basta. Hanno distrutto le nostre case. Accetti. Ci hanno ammassato attraverso i checkpoint. Accetti. […] Ma in prigione cominciai a riflettere sulle nostre esistenze, sulla nostra identità, in quanto arabi, e questo mi portò a riflettere anche sugli ebrei. E a quel punto compresi che l’Olocausto era reale, era successo per davvero. […] Ci sarà sicurezza per tutti quando avremo giustizia per tutti. Come ho sempre detto, è un disastro scoprire l’umanità del tuo nemico, la sua nobiltà, perché a quel punto non è più tuo nemico, non può proprio esserlo. […] Abbiamo bisogno di imparare a condividere questa terra, altrimenti la dovremo condividere nelle nostre tombe. […]»

Parole che i due genitori, stretti da vera e sincera amicizia, nonché membri di movimenti e associazioni che riuniscono famiglie appartenenti a entrambi i lati della “barricata” (“Parents Circle” e “Combattenti per la Pace”), hanno iniziato a ripetere all’infinito, portandole in viaggio ovunque, anche all’estero. Perché parlare e raccontarsi significa infine condividere il proprio dolore, che coincide con quello altrui, e contribuire così a una “lotta” non violenta a dispetto di quanto invece esigono le rispettive leadership. “Non finirà finché non parliamo” recita la scritta in ebraico sul paraurti della motocicletta di Rami, ed è vero.

“Apeirogon” non è un libro semplice, la sua lettura risulta alquanto impegnativa e lo stile adottato qui dall’autore potrebbe cogliere impreparati, ma ha il grande merito di puntare il dito anzitutto contro l’occupazione, raccontata con franchezza nella propria brutale quotidianità fatta di check points, incursioni delle jeep militari, perquisizioni e umiliazioni di vario tipo (e chi ha messo piede in Cisgiordania almeno una volta, anche per poco tempo, sa bene che queste non sono fantasie da scrittori). Trattare un simile argomento equivale a camminare su un terreno minato per tanti motivi; tuttavia, penso che Colum McCann, nonostante alcune polemiche dopo l’uscita del volume, lo abbia affrontato con onestà; il risultato è un’opera coinvolgente e di assai ampio respiro che può dare il proprio valido contributo alla conoscenza di quanto realmente avviene in Palestina e smuovere, di conseguenza, la coscienza dell’opinione pubblica in generale. Affinché nessun bambino sia più l’inerme bersaglio del fucile di un soldato, al pari di una cisterna piena d’acqua, e nessuno debba più saltare in aria per mano di quella premeditata follia suicida che non potrà mai essere la soluzione all’ingiustizia e all’oppressione. Perché anche il soldato che preme il grilletto e i kamikaze imbottiti d’esplosivo, come sottolineano gli stessi Bassam e Rami, sono vittime dell’intero sistema di guerra perenne. Una lettura decisamente consigliata!

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Apeirogon 2024-04-03 21:21:25 mariaangela
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    03 Aprile, 2024
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"Basta Pre Occupazione"

Questa storia, vera, sembra incentrarsi sull’amicizia impossibile tra il palestinese Bassam e l’israeliano Rami che vivono a Gerusalemme su fronti geograficamente opposti e sulle loro bambine Abir e Smadar. C’è qualcosa che li unisce nel profondo, e questo qualcosa non fa differenza di nazionalità, cultura, ideologia, religione…hanno entrambi visto morire le proprie figlie innocenti in situazioni violente.

Smadar ha tredici anni, quando il 13 settembre 1997 dei terroristi si fanno esplodere in strada e lei viene travolta dall’esplosione. Ascoltava musica in cuffia e camminava in compagnia di altre amiche. McCann non ci risparmia dettagli sui corpi dilaniati.

Abir Aramin viene colpita dal proiettile sparato da un ufficiale israeliano che si era sentito in pericolo, in pericolo da una bambina di dieci anni, tanti ne ha Abir nel 2007. Indossava la divisa scolastica ed era appena uscita da un negozio dove aveva comprato le caramelle, un bracciale di caramelle che suo padre porterà con sé alle riunioni. Le caramelle più costose del mondo dirà sempre.
“Il proiettile di gomma scagliò Abir al suolo a faccia avanti.”

Bassam ripercorre la tentata corsa verso l’ospedale, venti minuti al di là del Muro, l’ambulanza col divieto di muoversi, ferma al checkpoint e la sua litania…ti prego, ti prego, ti prego... La descrizione è talmente angosciante che un film non riuscirebbe a rendere più nitidamente lo strazio di questo padre impotente che implora l’ambulanza di partire. Mi ritrovo a farlo anche io parti, parti, parti…anche se già so come evolverà.
“Continuo a sedermi in quell’ambulanza, ogni giorno. In attesa che si muova.”
“Svegliati, Abir, svegliati.””

Questo lunghissimo racconto di eventi nasce dai numerosi incontri dell’autore con i due genitori, che hanno fatto una scelta diversa dall’odio che pure provano, ma che sarebbe stato solo autodistruttivo e che invece diventa un punto di ripartenza per instaurare un dialogo, un comune sentire il dolore, una consolazione, non ho paura di dire un’amicizia che diventa fratellanza, oltre il credibile, oltre il possibile, oltre i contrasti e le divergenze. La loro calma, compostezza, dignità.
L’autore ce lo racconta in tanti piccoli commoventi suggestivi passaggi.
Rami e Bassam, il loro capirsi al volo, il loro salutarsi come fossero fratelli da sempre, alzando semplicemente la mano in segno di saluto. Sono dettagli di straordinaria commozione, poche parole che bastano ad aprire un mondo, un apeirogon.

L’autore parlando di Rami e Bassam dice, “guarda l’amico infilare il casco”.
“Hai un faro spento.
Il tuo faro è rotto, fratello.”
Non si chiamano per nome ma dicono l’amico, il fratello.
“Tre brevi pulsazioni della luce di stop, il loro personale codice morse.”
“Basta PreOccupazione.”
“Sono a casa fratello, il pollice su come risposta.”

Il dolore abbatte le barriere, abbatte i muri, abbatte i preconcetti, rende tutti uguali, tutti ugualmente straziati.

E’ una cosa enorme. E nel libro si percepisce tutta questa magia.

Bassam, è così empatico, così attrattivo. Il suo zoppicare così familiare. Distolgo lo sguardo dalla carta perché non so come reagire. Ma poi riprendo la lettura perché è talmente magnetico, voglio sapere di più, voglio conoscerlo meglio.

Mi soffermo a pensare che le loro figlie sono uguali alle nostre, con i piercing, i Dr. Martens, le cuffie e la musica che è quella che conosco benissimo perché l’ascolto anche io, i capelli cortissimi, i balli sfrenati e improvvisati.
Il dolore e le lacrime sono le stesse di quelle che sto’ piangendo io.
Allora mi chiedo…pensavo che il dolore in quelle zone fosse un’abitudine? Che fosse un rischio calcolato? Mi vergogno di questa riflessione.
“Era strano pensare che fuori da lì ci fosse anche un altro mondo, un mondo normale e funzionante.”
Quella che io genericamente e con ignoranza definisco banalmente guerra, Medio Oriente, è la vita di donne, uomini, bambini che non possono distrarsi.

Il racconto degli eventi tragici che hanno visto morire Smadar e Abir raccontati più e più volte, continuamente, affinché il dolore ci investa davvero nella sua grandezza.

I capitoli sono brevissimi, anche di una sola frase. La prosa è fluente ma a volte devo tornare indietro per fare ordine e rileggere.

Dopo le rispettive tragedie trovano un nuovo motivo di vita nell’organizzazione di cui Bassam è tra i fondatori, “Combattenti per la Pace”, composta da israeliani e palestinesi uniti per fermare le violenze e promuovere il dialogo e la reciproca accettazione dell’altro.
Iniziano i loro incontri sempre allo stesso modo, sempre come fosse la prima volta, perché in questo modo Abir e Smadar rinascono a nuova vita ogni volta.
“Sono Bassam Aramin, il padre di Abir.”
“Sono Rami Elhanan, il padre di Smadar.”
“Abir. Dall’arabo antico. Il profumo. La fragranza del fiore.”
“Smadar. Dal Cantico dei Cantici. Il grappolo della vigna. Il fiore che si schiude.”
“Erano così uniti e vicini che, dopo un po’, Rami sentì che avrebbero potuto concludere l’uno la storia dell’altro.”

“Non finirà finché non ci parliamo.”

Il titolo del libro diventa sempre più chiaro man mano che si avanza nella lettura, il poligono dall’infinito numero di lati rimanda a tantissimi pensieri che via via prendono forma. Mai un titolo è stato più centrato.
Infiniti sono i punti di vista che mi appaiono durante la lettura. Non uno. Non due. Infiniti. Si è possibile.
Sembra strano come una lettura possa avere un effetto così “illuminante”, ma tanto è successo. Non sono israeliani, non sono palestinesi…sono persone non violente, che non hanno chiesto di vivere ciò che hanno vissuto, ma più di tutto nessuno di loro ha più ragioni o più torti dell’altro…suo fratello.
Non ci avevo mai riflettuto abbastanza, così concentrata a sentire solo il rumore assordante delle esplosioni e dei bombardamenti che ci sono, non ho colto nella confusione generale l’urlo disperato dell’innocente ambulanza ferma al checkpoint. Non ho colto l’infinità delle molteplici possibilità.
Non ho visto questi due uomini che si tengono per mano.
Non avevo.

Buone prossime letture.

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Apeirogon 2023-12-03 12:20:19 annamariabalzano43
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Dicembre, 2023
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Nothing compares 2U

Pubblicato per la prima volta in Italia nel 2021 nella collana I Narratori e nel 2022 nell’Universale Economica di Feltrinelli, Apeirogon, il romanzo di Colum McCann, bellissimo nella sua complessità, affronta il dibattuto e problematico tema del rapporto Palestina-Israele.
Il titolo stesso, Apeirogon, che allude ad un poligono dal numero infinito di lati, ci introduce in un mondo dagli innumerevoli aspetti per lo più in contrasto tra loro. È il mondo di Bassam e Rami, l’uno palestinese, l’altro israeliano, che si trovano accomunati da un dolore immenso generato dalla perdita improvvisa e violenta delle figlie, Abir e Smadar, uccise in due attentati avvenuti in tempi e luoghi diversi. È il dolore per la più grave perdita che l’individuo possa soffrire, un dolore, unica vera espressione di democraticità in quanto può colpire chiunque senza distinzione di origine, di sesso, di ceto o di colore, che dà la forza di superare l’istante dell’odio e della ribellione, per unificare gli animi, invece di dividerli, per operare nell’interesse del resto della società perché casi simili non si ripetano. Ciò significa perseguire un ideale di pace così difficile da realizzare, soprattutto per l’ignavia e gli egoismi della politica. Risulta evidente, dalle pagine di questo romanzo, come vittime non siano solo coloro che cadono sotto i colpi delle armi, ma vittime altrettanto degne di pietà sono coloro che restano, lasciati soli nella loro sofferenza.
Emerge, in quest’opera, tutta la storia della nascita dello stato di Israele e dell’inevitabile contrasto con il popolo palestinese, senza, tuttavia, che l’autore faccia di essa un romanzo storico. È così, certamente, che la narrazione acquisisce maggiore spessore.
Un testo ricco di metafore, in cui traspare tutta la grande eredità della migliore letteratura irlandese, da Sterne, a Swift, a Joyce, con l’inserimento di innumerevoli digressioni e paragrafi bianchi. Non a caso la stessa struttura del libro è estremamente originale: diviso in due parti, ciascuna composta da capitoli, che a volte si riducono a brevi paragrafi, dalla numerazione crescente nella prima parte, decrescente nella seconda. Dal numero uno si inizia, col numero uno si conclude. Tutto ciò si spiega con quella affermazione apparentemente ermetica: “Se dividi la morte per la vita troverai un cerchio”. Il cerchio, la figura geometrica perfetta, dove l’inizio della circonferenza si conclude con la sua fine, in un congiungimento ideale di vita e morte, dove tutti gli innumerevoli lati dell’apeirogon si appiattiscono in quella linea che formerà infine la circonferenza del cerchio.
E ancora le digressioni, così care a Sterne e allo stesso Joyce, sono parte importante della narrazione, perché la vita non ha un solo tema. È questo il motivo per cui Le mille e una notte, un testo così importante sia per la cultura araba, come ormai anche per quella occidentale, torna tanto spesso nel racconto.
Non meno colpisce come il leitmotif del romanzo sia “Nothing compares 2U” scritta da Prince, ma resa immortale dalla voce e dall’interpretazione di Sinead O’Connor, anche lei irlandese, anche lei devastata dalla morte del figlio diciasettenne. Una interpretazione che è un vero urlo di dolore.
Un romanzo da leggere, sia per la sua struttura originale, ma soprattutto perché ogni parola fa riflettere su quanto sia difficile costruire la pace, quanto più coraggio ci voglia a mantenerla di quanto ce ne voglia ad imbracciare le armi

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Apeirogon 2022-07-02 17:54:49 Pelizzari
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    02 Luglio, 2022
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Il dolore di due padri

L’idea alla base di questo romanzo è estremamente attuale ed interessante. Un uomo israeliano ed un uomo palestinese si trovano a dover affrontare e gestire lo stesso tipo di lutto, la perdita di una figlia, in entrambi i casi per morte violenta, ovvero per colpa di un attentato. La loro esperienza di vita li porta a raccontare se stessi, a cercare la vicinanza, per portare nel mondo la loro testimonianza. Spunti quindi veramente ottimi per riflettere sia su quanto il dolore esige prima di tutto di essere sconfitto e poi compreso, sia sulle problematiche politiche e sociali che interessano questa parte del mondo da anni così martoriata. Peccato per lo stile. Che è estremamente frammentato. Arricchito di particolari che ti permettono forse di entrare di più nella cultura di questi popoli, ma che distolgono l’attenzione. Continui salti avanti e indietro nel tempo. Continui cambi di focus sulle rispettive famiglie. Modalità indubbiamente originale ma a mio avviso eccessivamente dispersiva.

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Apeirogon 2022-05-25 17:54:11 Menti55
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    25 Mag, 2022
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Per la ricerca di una pacificazione del conflitto

Apeirogon si inserisce nel filone narrativo di chi, da tempo, si batte per la fine del conflitto palestinese. A differenza della gran parte degli scrittori israeliani o palestinesi – fra tutti A. Yehoshua (Fuoco amico) e Susan Abulawa, (Ogni mattina a Jenin) – Colum McCann è uno scrittore irlandese-statunitense. Il romanzo ripercorre le vicende di Rami e Bassam le cui vite sono segnate dalla perdita, rispettivamente, di Smadar e di Abir, le loro figlie. Smadar uccisa a 13 anni da un attentato palestinese e Abir, uccisa a 10 anni da un soldato israeliano che le spara alla testa da una autoblindo. Rami e Bassam, dopo un incontro fatto di diffidenza prima e di amicizia dopo, diventano portatori di un messaggio di pace invocando energicamente, in tutto il mondo, un processo di distensione e di coesistenza pacifica tra i due popoli. Come il poligono da cui prende il nome il romanzo, con mille sfaccettature, è struggente, duro, impietoso contro chi, da ambedue le parti, ostacola volutamente, per interessi o ideologia, qualsiasi processo di pace. La testimonianza, sempre la stessa e sempre diversa, che Rami e Bassam portano in giro per il mondo, è così potente nella sua semplice drammaticità da infondere nel lettore un vivido messaggio di speranza. Il susseguirsi incalzante di paragrafi molto brevi (uno di sole 3 parole) sembra quasi voler richiamare, nel ritmo narrativo, la sequenza di scariche di mitra e/o della quotidiana violenza che quei popoli vivono. Il limite è che è un po' troppo intriso di buonismo. Far emergere la voglia di pace attraverso solo la “buona volontà” delle parti rende riduttiva e alquanto "semplicistica" una questione che si dipana da troppo tempo. Pur non nascondendo la violenza che i palestinesi subiscono McCann sorvola troppo sulle responsabilità dell’occupazione israeliana... e chi ha visitato Israele ha potuto toccare con mano che la vera violenza è proprio nella “normale quotidianità” cui i palestinesi sono costretti a vivere. Da leggere.

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Fuoco amico di Yehoshua; Ogni mattina a Jenin di Susan Abulawa; chiunque auspica la fine del conflitto tra ebrei e palestinesi.
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