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Acqua viva

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Da un mistero è venuta, verso un altro è partita. / Restiamo ignari dell'essenza del mistero» scrive Drummond de Andrade di Clarice Lispector. Ed è proprio in un misterioso universo personale – un universo labirintico e lacerato – che il lettore viene come risucchiato dalla voce, visceralmente femminile, che in queste pagine tenta di dire l'indicibile, di entrare in contatto «con l'invisibile nucleo della realtà». Attraverso uno sregolato, impetuoso flusso di coscienza la Lispector ci fa percepire, in modo quasi fisico, impressioni e visioni di travolgente intensità, usando una lingua che sembra inventare continuamente se stessa, il cui fascino risiede nella sua stranezza e le cui ferite sono il suo punto di forza. Testo estremo di un'artista estrema, Acqua viva costituisce il raggiungimento della maturità della sua autrice: un assolo ammaliante, in cui tornano i temi ricorrenti in gran parte dell'opera della Lispector – la natura e i suoi sfaccettati simbolismi, lo specchio e la rifrazione obliqua, il male e la morte, l'incomunicabilità fra amanti – spinti all'incandescenza, senza che mai, ai suoi incantesimi, ci sia dato sottrarci.



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Acqua viva 2019-06-24 21:46:18 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    24 Giugno, 2019
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Un’aria di vetro

Il problema pulsante, vivo e feroce che anima le poche pagine di questo libro vertiginoso e terrestre, ctonio e pure rarefatto, è l’impossibilità di dire il mondo, perché la “realtà non ha sinonimi”. Una sfida, quella alla verità, incarnata in primo luogo da una lingua che continuamente divora se stessa per superare i limiti stessi del linguaggio. Se le parole non possono lambire il fondo roccioso delle cose, il senso ultimo, il segreto impossibile della conoscenza non può che trovarsi tra le righe, negli spazi bianchi, negli aloni e nelle suggestioni. Clarice Lispector si muove sinuosa e viscerale in un monologo che procede per giustapposizione di immagini, per sinfonie di suoni, per impressioni che durano il tempo di un istante. La sfida della scrittrice è quella di fissare l’istante che già non è più con la scrittura, rappresentare non il presente, ma l’adesso. Una sfida che ricorda Monet e le sue ninfee, il tentativo supremo di fissare la luce sulla tela, la luce atroce che cangia la realtà e ne impedisce la rappresentazione. Per Lispector, la parola è atroce perché i limiti del linguaggio, sono i limiti della conoscenza del mondo e la conoscenza del mondo è insufficiente. Allora anche le parole sono insufficienti.

Come in fondo ad un pozzo, da sola, senza appigli per risalire, Clarice Lispector vive di bufere e maree, ritorna alle più pure sorgenti della vita, nel fuoco d’artificio di un pentagramma immaginifico ed evocativo che scostante e disinteressato del lettore, si dispiega in tutta la sua criptica musicalità. Le note arrivano là dove le parole falliscono. Tutto è incendio e grandine, in lei “rabbrividisce il mondo”, brucia il sole, si apre delicata una rosa e pulsano violente le radici delle piante. E alla fine, quando la scrittrice tocca il momento cristallino, quel “nulla di inesauribile segreto” che le dispiega di fronte l’”it”, la cosa in sé, tutto diventa leggero ed evanescente e il libro, così stordente, così cocciutamente antiletterario, dilegua come l’ultimo raggio di sole prima del tramonto. E il lettore si trova in pace, anche se non ha capito tutto, anche se il più gli resta nascosto, anche se non è arrivato da nessuna parte. Magico potere di una scrittura che, a voler citare Hegel, è “vera autocoscienza” perché irrepreseibilmente “signorile”.

Nata in Ungheria, ma mai attaccata alla sua terra, Clarice Lispector è forse la maggiore scrittrice brasiliana della seconda metà del secolo scorso. In lei la scrittura non chiede permesso al lettore, non è plasmata per essere pubblicata, no, la scrittura governa se stessa, incurante, frammentata, potentissima e senza ritmo. Una scrittura che mette alla prova il lettore, frustrante, quasi sgradevole, senza respiro: problemi di cui la scrittrice è consapevole e che pure non la fanno mai desistere perché la pagina diventa lo spazio per esprimere quello che in lei è più forte di lei. Ottanta pagina densissime, da leggere con cura, soffermandosi ma senza tentare di spiegare tutto, seguendo il flusso impetuoso delle parole. E alla fine Lispector, arriva a conclusioni cui altri prima di lei sono giunti: il cielo più azzurro è il più vuoto, la vera profondità non è un abisso, ma uno specchio piatto. Dio, morte, vita, godimento, specchi e fiori si alternano e richiamano in una rapsodia dissonante e che, se non nello stile, trova compiuta placida bellezza in quello che sa lasciare al lettore.

La sintesi più adeguata al libro non la scrivo io, ma Montale, con questi suoi celebri versi:
“Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.”
Clarice Lispector è stata la luce nella stasi di quella mattina in cui la verità si è dispiegata. Una verità che non si può dire, perché in principio presso Dio non era la parola, ma la vita e la vita parla solo urlando. L’urlo di Calrice Lispector è un grido di umanità e un gemito di verità.

[Non ho potuto dare più di 2 in piacevolezza, perché la lettura è davvero ostica e il lettore deve costringersi ad andare avanti, però il libro di per sé meriterebbe ben più di un 3,5/5]

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