Narrativa straniera Romanzi Abbacinante. L'ala sinistra
 

Abbacinante. L'ala sinistra Abbacinante. L'ala sinistra

Abbacinante. L'ala sinistra

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Nuova edizione della prima parte di una trilogia che l’autore ha impiegato 14 anni a scrivere e Voland 10 anni a pubblicare nella sua interezza: Abbacinante (L’ala sinistra, Il corpo, L’ala destra). Una narrazione di forza visionaria assoluta e travolgente, riconosciuta come una delle opere essenziali della letteratura moderna. Migliaia di personaggi si alternano in queste pagine. Qui, in questo primo affresco mozzafiato, la figura centrale è quella della madre del protagonista, e il viaggio avviene nelle viscere oscure di una Bucarest abitata da creature impastate di sogno e violenza, tra periferie industriali, suggestivi quartieri in rovina e palazzi sventrati. Un libro caleidoscopio in cui lo sguardo si trasforma in prisma poetico e la realtà si ricompone per frammenti attraverso impressioni, sensazioni e allucinazioni.



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Abbacinante. L'ala sinistra 2022-10-31 14:06:10 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    31 Ottobre, 2022
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TRA REALTA' SOGNO E VISIONE

“Forse nel cuore più profondo di questo libro non c’è nient’altro che un urlo giallo, abbacinante, apocalittico...”

Io ritengo che gli scrittori, o gli aspiranti tali, non leggano i libri di Mircea Cartarescu, anzi si guardino scrupolosamente dal farlo. Infatti, se lo facessero, il costante confronto con la prosa tersa e adamantina dello scrittore romeno, la cui bellezza l’aggettivo del titolo di quest’opera è incidentalmente in grado di descrivere alla perfezione, sarebbe così umiliante, così paralizzante, che il mestiere dei narratori, dei romanzieri e dei saggisti subirebbe probabilmente un esodo storico verso altre meno nobili professioni, e le case editrici avrebbero seri problemi a riempire i loro cataloghi, così come le librerie i loro scaffali. Se io dovessi mai accingermi a scrivere un romanzo o – peggio – un’autobiografia, credo che, dopo neppure una pagina, per quanto ambiziosa e stilisticamente raffinata cercasse di essere, scaglierei via la mia penna dalla rabbia, per l’incapacità di eguagliare anche solo per una centesima parte la perfezione ipnotica e visionaria di un qualsiasi periodo preso a caso nelle quasi 500 pagine di “Abbacinante. L’ala sinistra”, prima parte della più ampia trilogia che Cartarescu ha voluto dedicare alla storia della sua vita. Per fortuna io non sono uno scrittore, e gli scrittori – a quanto pare – non leggono Cartarescu… L’autore di Bucarest, la città che fa costantemente da sfondo ai suoi libri, terribilmente realistica eppure al tempo stesso magica e favolosa come la Macondo di Garcia Marquez, è, credo, uno dei segreti meglio custoditi della letteratura contemporanea, almeno in Italia, dove i suoi libri sono stati tradotti con inspiegabile ritardo e pubblicati da una piccolissima casa editrice come Voland. “Abbacinante” è senz’altro uno dei libri più belli e significativi che mi sia stato concesso di leggere negli ultimi anni, e forse solo un paragone quanto mai impegnativo, e a prima vista quasi inconcepibile, come quello con “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust può dare l’idea di cosa un lettore è destinato a incontrare quando si accinge ad iniziare la trilogia. Infatti “Abbacinante” è prima di ogni altra cosa un romanzo (anche se parlare di romanzo in questo caso è allo stesso tempo fuorviante e riduttivo) sul tempo e sulla memoria, degno in tutto e per tutto di stare alla pari con la più famosa “Recherche”. Cartarescu si addentra nei ricordi della sua infanzia e della sua adolescenza (“voyeur della mia stessa vita”), e lo fa non tanto per risuscitarlo, come il suo precursore francese, ma al contrario come un necrofilo che perlustri la scena di un delitto, constatando e mettendo a referto soltanto morte e putrefazione. “Quando penso a me stesso in età diverse… è come se parlassi di una lunga serie ininterrotta di morti, di un tunnel di corpi che muoiono uno dentro l’altro”. Come tante matrioske ogni “io” è celato dentro un altro “io”, ognuno gravido di quello che lo ha preceduto, in un’interminabile sequenza che procede verso un nucleo sempre più denso, enigmatico e tenebroso. Cartarescu risale a ritroso gli anni come un salmone, in una fitta nebbia in grado di restituire solo allucinate presenze, immagini deformate che sconfinano sovente in quelle “catacombe dell’immaginario” che sono i sogni e le visioni. Lo scrittore romeno non ricostruisce infatti la propria vita e quella dei suoi genitori come in una classica autobiografia, ma le reinventa completamente, mescolando in maniera sorprendente leggenda e ritratto d’ambiente, delirio e cronaca familiare, mondo onirico e mondo reale (si veda, ad esempio, la descrizione dell’arrivo a Tantava del clan dei Badislav, dalla cui stirpe discende la madre, che nelle mani di Cartarescu diventa una favola pirotecnica, un mito colorato e bizzarro, in cui immagini veterotestamentarie di angeli e demoni si mescolano alla sfrenata e morbosa fantasia di un Bosch). Per Cartarescu sogni e allucinazioni non sono una realtà “altra”, una realtà parallela, in qualche modo alternativa a quella di cui facciamo quotidianamente esperienza con i nostri cinque sensi, ma sono integralmente parte di essa, anzi ne costituiscono l’aspetto più rilevante e significativo. Questa è la principale differenza con Proust, la cui fedele, minuziosa, certosina descrizione del “tempo perduto” aveva l’ambizione non già di mettere in discussione la realtà, ma di annullare ogni distanza tra l’ieri e l’oggi e realizzare, per il tramite dell’opera d’arte, una sorta di eternità, in cui passato, presente e futuro miracolosamente vengono a coincidere. Per Cartarescu invece “la realtà non è che un caso particolare dell’irreale, e noi tutti siamo, per quanto ci paia di sentirci concreti, solo la finzione di chissà quale altro mondo, che ci crea e ci contiene”. E’ verso quest’altro mondo, che intuiamo ma che si nega costantemente ai nostri sensi, che è proiettata la ricerca dell’autore romeno, in una sorta di slancio mistico che è ben diverso dalla “recherche” proustiana, ma anche dalla spiritualità delle religioni monoteistiche moderne. Non c’è nessuna “madeleine” qui ad aiutare Cartarescu (tutt’al più ne rinveniamo una versione deformata e grottesca laddove il protagonista “ricostruisce” sua madre contemplando la sua dentiera nella luce del tramonto), bensì una particolarissima forma di nostalgia, un sentimento indefinibile che “proietta nel passato ciò che intuisce essere il nostro destino e il nostro futuro”, che cerca disperatamente qualcosa senza sapere bene cosa, ma con la certezza che “deve” essere assolutamente trovato. Il passato è lo strumento, la mappa per venire a capo dell’enigma apparentemente insolubile del mondo. L’io non è il punto di arrivo, ma quello di partenza per poter sperare di evadere un giorno in un’altra, superiore dimensione, e ricongiungersi con quell’essere autentico, simile probabilmente a un angelo, che un giorno tutti noi eravamo, prima che il concepimento e la nascita tradissero irreparabilmente (e ci allontanassero definitivamente da) questa perfezione. Il passato è la chiave per giungere a questa rivelazione, e la propria vita trascorsa il libro tra le cui pagine cercare gli oscuri, labili indizi che possano portare a una verità ben più elevata di quella che sperimentiamo ogni giorno nel corso della nostra esistenza. Il punto da cui Cartarescu prende le mosse è forse l’aspetto che più lo avvicina al postmodernismo pynchoniano a cui molti lo hanno accostato. C’è infatti in tutto il romanzo una costante atmosfera di complotto, di cospirazione. La cospirazione però qui non è un escamotage narrativo, o una metafora dell’incomprensibilità, dell’ingovernabilità del mondo, ma è qualcosa di profondo, di ontologico oserei dire. Anche se tutto, dalla penna con cui scrivo queste righe al mal di testa con cui mi sono svegliato stamattina, dalla sveglia che mi ha strappato al sonno al sole che brilla fuori della finestra, cerca di convincerci “che l’esistenza davvero esiste, che il mondo è reale, che viviamo realmente in un mondo autentico”, la verità per Cartarescu è che tutto è clamorosamente falso, per il semplice motivo che noi non apparteniamo a questo mondo. “Il tuo regno non è qui. Devi andartene, trovare il tuo mondo, quello in cui stavi un tempo e del quale, senza saperlo, hai nostalgia. Devi cercare l’uscita, questo è lo scopo della tua vita, la regola del gioco al livello in cui ti trovi. E, in un certo senso, la ricerca è l’uscita.” Siccome non abbiamo bussole, non possediamo strumenti per questa decisiva ricerca, dai cui esiti dipende tutta la nostra vita, dobbiamo affidarci ai sogni, ai riti, alle psicosi, che soli sono in grado di farci intuire la verità, “per speculum in aenigmate”, usando quelle parole di San Paolo che ricorrono spesso nel libro. E’ per questo che sogni, allucinazioni e visioni abbondano in “Abbacinante”, conferendogli quell’inconfondibile carattere mistico e surreale insieme, a metà tra l’Apocalisse di Giovanni e un trip allucinogeno. Ciò spiega anche l’abbondanza di simboli, primo tra tutti quello della farfalla, che è il vero leitmotiv di “Abbacinante” (dalle farfalle giganti sotto al ghiaccio trasparente del Danubio invernale alla macchia a forma di farfalla sul fianco della madre, dalla farfalla che la donna rimasta rinchiusa nell’ascensore tiene in braccio quando Maria e Costel la ritrovano dopo dodici anni alle farfalle che escono dalle lingue delle vergini officianti il rito di fra’ Armando). Gli uomini sono infatti “esseri anfibi, tra cielo e terra”, e una simile condizione è descritta esemplarmente proprio da questo insetto, il quale da insignificante larva, da ripugnante bruco quale inizialmente è, è destinato a trasformarsi in una meravigliosa creatura alata. La memoria è legata a doppio filo a questa metafora, tanto è vero che Cartarescu la definisce “la metamorfosi della mia vita, l’insetto adulto di cui la mia vita è la larva”. Quello che lo scrittore romeno trova più spaventevole nel destino a cui l’uomo è chiamato non è tanto il non-essere, bensì “l’essere senza essere”, vivere cioè invano, senza scopo, senza neppure cercare la via d’uscita, lungi dal trasformarsi in farfalla ma rimanendo nella condizione di un acaro che vive inconsapevolmente sotto la pelle di Dio, ignaro dell’organismo che lo sta ospitando (sarà il tema di “Solenoide”, che sotto molti aspetti appare come una coerente prosecuzione delle tematiche di “Abbacinante”). Compito dello scrittore non è quindi quello di cercare individualmente, egoisticamente questa via d’uscita, ma di suggerire all’umanità qual è il suo destino, far scaturire in tutti la scintilla della nostalgia e disseminare il suo impervio percorso gnoseologico verso la verità, come nella celebre favola, di tante briciole che possano, nell’oscurità, aiutare chiunque a non smarrire la strada. Nella sua accesa e un po’ psicotica fantasia, Cartarescu fa un amplissimo uso di episodi dell’immaginario cristiano arrivando a immaginare la madre (che riveste un ruolo centrale in questa prima parte della trilogia) come una sorta di Madonna (Maria è, non a caso, il diminutivo di Miroara), a cui viene annunciato dalla fantasmatica donna dell’ascensore quel concepimento la cui febbrile e delirante descrizione occuperà l’ultimo capitolo, quello della cerimonia di fra’ Armando, esponente di quella setta di eletti e di predestinati chiamata gli Scienti. Cartarescu sembra dirci che lo scrittore è una sorta di nuovo Messia, e nonostante che nelle sue pagine non vi sia traccia di ironia, nonostante la sua filosofia sfiori continuamente il kitsch e il ridicolo, egli riesce ugualmente a far stare brillantemente in piedi una costruzione esagerata, grottesca e polimorfa e a far convivere insieme riflessione filosofica e spiritualità new age. La memoria è la “quintessenza del sacro”, e il suo vangelo è il libro stesso che l’autore descrive spesso nel suo faticoso farsi e che il lettore si trova ora tra le mani, quel libro che è contemporaneamente enigma e soluzione, medium e rivelazione, libro scritto sulla pelle, da decifrare come un misterioso tatuaggio (si veda il bellissimo episodio di Anka e del tatuaggio-messaggio cifrato che la ragazza ha sul cranio) o uno stereogramma apparentemente incomprensibile. Tutto nell’opera di Cartarescu è intriso di religiosità e misticismo (per inciso, trovo curioso ma nient’affatto casuale il fatto che un simile approccio irrazionalistico e anti-realista appartenga non solo allo scrittore romeno, ma anche a diversi tra i più importanti scrittori est-europei, come Volodine, francese ma di origine russa, o il bulgaro Gospodinov), in una visione sincretista in cui i Veda si mescolano alla Kabbalah, Krishna al Bardo Thodol, i koan ai mandala e i chakhra ai mantra; e poi ancora antroposofia, esoterismo, persino magia e riti voodoo (il simbolo di questo sincretismo è fra’ Armando, il sacerdote di tutte le religioni, che per tre giorni alla settimana fa il prete, per altri due giorni lo stregone, e il tempo restante presta i suoi uffici come imam in una comunità musulmana e come rabbino al tempio ebraico). Realtà fisica e dimensione spirituale sono due aspetti unitari, indistinguibili, che si compenetrano inestricabilmente tra loro, entrambi espressioni di una inafferrabile divinità che si svela e si nasconde in una quarta dimensione, che è il tempo, campo di esplorazione e terreno di ricerca che Cartarescu decide pervicacemente di scandagliare, consapevole che “l’intera nostra vita non è altro che l’ombra che il nostro corpo proietta sul tempo”.
“Abbacinante” è un- romanzo apparentemente disordinato e confuso (lo stesso Cartarescu ne parla, con finta seriosità, come di un “manoscritto senza capo né coda”, di un “libro illeggibile”), ma alla fine, miracolosamente tutto torna. Episodi che sembravano essere stati lasciati in sospeso vengono poi ripresi e portati alla loro naturale conclusione, e concetti che non si sa perché siano stati messi lì dall’autore trovano molte pagine più avanti la loro spiegazione (penso ad esempio al “tikitan”, il favoloso idioma parlato come per gioco, nell’ospedale in cui è ricoverato, dalle due piccole compagne di stanza di Mircea bambino, il quale ritorna nei versi barbarici e incomprensibili pronunciati da fra’ Armando nel corso della sua cerimonia iniziatica). Quello che di primo acchito può sconcertare in “Abbacinante”, oltre al suo surrealismo, è la sua costante mescolanza di reale e di virtuale, che dà origine a vertiginosi paradossi logici. Per Cartarescu, ad esempio, Dio non è Colui-che-è, ma Colui-che-sarà, perché è l’uomo a crearlo per poter essere da lui a sua volta generato. Dio non è morto, come affermava Nietzsche, bensì non è ancora nato. Ribaltando il consueto concetto di causa-effetto, Cartarescu può affermare che “tutti i mondi esistono per venire esistiti” e che “tutti i creatori (anche gli scrittori, aggiungo io) sono le creature delle loro creature [,…] formando una dualità inscindibile”. E’ questo perenne dualismo, che già abbiamo visto a proposito del destino dell’uomo, sospeso tra la condizione di farfalla e quella di acaro, a dare al romanzo un carattere ossimorico, in precario equilibrio tra sublime e volgare, tra sacro e blasfemo, tra paradiso e inferno, tra luce e tenebra, tra materialità e spiritualità. “Abbacinante” è un libro- visionario, psichedelico, anamorfico, eppure straordinariamente ipnotico e affascinante. Opera ambiziosissima, “bigger than life”, romanzo-mondo smisurato e a tratti addirittura eccessivo, a cui non si può non riconoscergli un coraggio titanico e quasi sconsiderato (cosa che lo rende a tratti di non facilissima lettura), “Abbacinante” è anche un testo, come ho già detto all’inizio di questa recensione, dallo stile raffinatissimo. Il suo lessico è quanto mai colto ed erudito, impreziosito dall’uso di termini specialistici (soprattutto scientifici) e sorprendentemente vario (se si potesse contare il numero di vocaboli diversi utilizzati dall’autore in “Abbacinante” verrebbe sicuramente fuori un numero strabiliante, difficilmente eguagliabile). La prosa di Cartarescu è labirintica, vertiginosa: leggere “Abbacinante” è come ammirare la bellezza di una rosa, stupirsi della perfezione dei suoi petali, seguirne le infinite circonvoluzioni fino a rimanerne ipnotizzati, fino a perdersi nel suo interno come dentro a una magia, a un sogno venato di irrealtà. Come ho già accennato più sopra, “Abbacinante” è ricchissimo di simbolismi e di metafore, così come di leitmotiv che chi ha già letto qualche libro di Cartarescu non faticherà a riconoscere. In primo luogo c’è Bucarest, “la mia città, il mio alter ego”, metropoli labirintica, fantasmatica, onirica (tutti gli edifici della città sembrano comunicare tra loro come i sogni, e non è inconsueto per il protagonista percorrere per un tempo indefinito i corridoi di un ospedale prima di trovare la stanza cercata, oppure aggirarsi di notte sulla terrazza di un edificio, a chilometri dalla propria abitazione, e subito dopo, scendendo a rotta di collo le rampe di scale per sfuggire ad una orribile visione, ritrovarsi dopo una decina di piani davanti alla porta di casa) e addirittura “organica” (Mircea la immagina, contemplandola nottetempo dalla finestra della sua stanza, come un impasto di carne e di pietra, di acciaio e di orina, di vertebre e di architravi). Enigmatiche sentinelle della città sono le sue inquietanti statue le quali, quasi fossero dei messaggeri ultraterreni, svelano in maniera iniziatica una realtà nascosta, una dimensione ctonia, in cui la mente umana rischia di perdersi (come nell’episodio in cui Ionel si trova a vagare, quasi levitando, nel mondo sotterraneo, popolato di conturbanti presenze, apertosi con sua somma sorpresa sotto il busto della statua di Puskin). La sfrenata fantasia di Cartarescu è nutrita di numerosi riferimenti culturali e artistici, da Kafka al realismo magico, dal surrealismo bretoniano alle esperienze pittoriche di Monsù Desiderio e di Piranesi, ma tutto è declinato in maniera estremamente originale e inconfondibile. “Abbacinante” è un libro unico, irripetibile, una pietra miliare della letteratura contemporanea in cui il suo autore ha cercato, con una ambizione, una caparbietà e una audacia tali da far restare a bocca aperta per l’ammirazione, “di tornare dove nessuno è mai tornato, di ricordare ciò che nessuno ricorda, di capire ciò che nessun essere umano può capire: chi sono, che cosa sono?”

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Mircea Cartarescu: "Solenoide"
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Abbacinante. L'ala sinistra 2020-09-23 15:23:25 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    23 Settembre, 2020
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Orbitor

Un libro che ha molto influenzato e scosso Mircea Cartarescu da bambino è stato "Il Conte di Montecristo" di Alexandre Dumas. Faceva ancora fatica a leggere eppure si stava già lanciando a gamba tesa nel meraviglioso mondo della letteratura. Edmond Dantes, personaggio ordinario, viene rinchiuso nella crisalide del Castello d'If, laddove acquista la conoscenza ma anche il potere attraverso la ricchezza, e torna nel mondo completamente cambiato, metafora della metamorfosi completa del bruco in farfalla. La metamorfosi rappresenta il fil rouge anche in "Abbacinante. Ala sinistra", primo volume del trittico "Abbacinante", imponente cattedrale letteraria. Se Dumas ha veicolato il messaggio attraverso un romanzo popolare, per tutti e con le caratteristiche dell'epoca, Cartarescu lo veicola attraverso un raffinato romanzo contemporaneo, quasi illeggibile a detta dell'autore stesso, uscito nel 1996. 

Sono pochissimi i libri di questa fattura, richiedono genio, ispirazione, il lavoro e le competenze di un buon scrittore non bastano per la loro creazione. Sono libri che si scrivono quasi da sé, come dice Pessoa in "il libro dell'inquietudine" - non è lo scrittore a scrivere la frase ma è la frase a scrivere lo scrittore. Questo lampo di genio, questo scrittore torturato dalla propria ispirazione, chino sulla sua scrivania che scrive come se fosse in trance io l'ho trovato in questo magnifico libro. Inizia con una narrazione in prima persona, quella di Mircea, uomo adulto, che ricorda con nostalgia i tempi della sua infanzia in un paese delle meraviglie. Ma poi anche la voce narrante subisce metamorfosi e improvvisamente prende voce un altro personaggio, per poi ritornare nuovamente a Mircea. "Descrivere le cose che furono non significa descrivere il passato ma la nebbia che da esso ci separa", una nebbia in cui realtà, sogno e visione si intrecciano e si confondono ma insieme creano una parte inscindibile che rappresenta la vita umana. Quindi va a narrare non solo la sua infanzia in quanto realtà ma anche i suoi sogni e le sue visioni.

L'ambientazione del presente è nettamente dostoevskiana con tinte  proustiane: Mircea, scrittore adulto, abita in un monolocale dotato di un piccolo letto, un tavolo, una sedia e una finestra su Bucarest (sembra un Rakolnikov nella sua Pietroburgo), quasi isolato dal mondo, rintanato nel suo alloggio come un "ragno nella sua tana", monopolizzando la sua attenzione sulla stesura di questo romanzo-mondo nel quale cerca di mettere in "disordine" i suoi pensieri, è quasi una costrizione, è messo con la spalle al muro dal ricordo perché "nessuna maschera o guanto chirurgico può proteggere dall'infezione che il ricordo emana", e da qui la sfumatura proustiana. Ma se in Proust il ricordo è dolce, per Cartarescu è amaro, è doloroso, è pregno di necrofilia: nel ricordare rovistiamo come un medico legale negli organi liquefatti dei nostri "io" passati e quindi morti nel tempo, ma il ricordo arriva, incontrollabile, e tu devi accettarlo e servirlo. Attraverso il ricordo, però, al pari di Proust, anche Cartarescu vuole andare laddove nessuno ci è andato, vuole abbattere la barriera spazio-temporale che ci inchioda al presente, e se Proust era riuscito ad assaporare l'eternità rivivendo intensamente momenti passati attraverso il ricordo, Cartarescu alza la posta in gioco e desidera abbattere la barriera spazio-tempo-cervello-sesso, ossia rivivere l'attimo prima della sua stessa creazione, dentro l'utero materno. A questo proposito devo confessare che la parte finale ha dell'incredibile per un lettore, è un mix di immaginazione fantastica, terminologia medica e carica erotica, si crea una tensione che esplode nella penetrazione dell'ovulo da parte dello spermatozoo e il narratore riconosce le proprie sembianze nella piccola cellula scissa in due: due gemelli, lui, Mircea, e il fratello Victor, che morì in tenera età. Il tutto è descritto con ampio utilizzo di metafore e visioni fantastiche. Un altro libro in cui ho assistito alla descrizione di come la vita nasce è "La montagna incantata" di Thomas Mann, lì c'è un capitolo in cui Hans Castorp, che stava studiando biologia e anatomia nel suo soggiorno al sanatorio, ha questo sogno-visione in cui la vita nasce! E' un passo densissimo, difficile, unico ma meraviglioso e lo stesso riesce a creare Cartarescu nell'abbacinante finale, che si chiude con la propria nascita cellulare, che prende forma e spirito -questo settimo chackra, la "sfera di diamante che gli bruciava sopra la testa", come lo Spirito Santo che Gesù soffia sulle teste degli apostoli. 

Il mondo che Cartarescu crea è molto difficile da descrivere, è pieno di piccole storie sparse qua e là tra un ricordo personale e altro ma tutto viene poi ripreso e i cerchi si chiudono proprio perché la vita di un essere comprende non solo i ricordi di fatti accaduti ma i sogni ricorrenti, le cose che sogniamo ad occhi aperti, le storie delle altre persone che conosciamo, i libri letti e i quadri ammirati, insomma, tutto ha importanza e si unisce a 360°. Come Musil dice in 'L'uomo senza qualità" che l'utopia è solo una delle tante possibilità, qui Cartarescu dice che l'irreale è solo una possibilità di ciò che potrebbe accadere e quindi una possibilità del reale. Nonostante ciò, nonostante il miscuglio realtà- sogno- immaginazione, l'autore riesce a descrivere un caos ordinato, un labirinto nel quale non abbandona mai il lettore ma lo prende per mano, guidandolo verso la magnifica via d'uscita. "Tutto cospira nel convincerti che non esiste via d'uscita ed effettivamente essa non esiste finché non la cerchi. E in un certo modo la ricerca stessa è la via d'uscita, come se lo spazio percorso con la speranza e la fede si solidificasse dietro di te, prendendo man mano le sembianze di un tunnel attraverso il quale puoi uscire, un tunnel tuo personale, aperto solo per te, come un poro che si apre improvvisamente nella pelle di petalo di Dio".

In questo primo libro della trilogia, Cartarescu sente la sua rivelazione artistica, come Proust senti la sua, sobbalzato nella carrozza sugli Champs-Élysées mentre si recava ad una festa mondana. Nel caso di Cartarescu invece si presenta in sogno, attraverso un inumano urlo abbacinante, giallo, di fuoco, che ricorre spesso nei suoi sogni fino ad assumere proporzioni gigantesche, ma come si fa a comprenderla? ad assimilare questo lampo geniale, bruciante, abbacinante?

"In questo mondo opaco, denso, letale come un cuscino che qualcuno ti preme sul volto per soffocarti mentre ti schiaccia il petto con le ginocchia per impedirti senza alcuna pietà di muoverti, la rivelazione è possibile.(...) Ma quanto puoi afferrare da essa se, scivolando lungo il tunnel, ad una velocità terribile, ti senti gli occhi carbonizzati e le orecchie raggrinzite dal fuoco, la lingua liquefatta e bollente, la pelle come la scorza degli alberi, la mucosa nasale evaporata dal calore?"

Eppure, ci prova a ricomporre la sua rivelazione, con carboni ardenti e cenere perché solo Lui, Lo Scrittore, è capace di "leggere la povera storia della vita umana" e la legge una sola volta, mentre la sta scrivendo. 
Per quanto povero è l'ambiente dostoevskiano nel quale l'opera prende forma, il mondo che lui descrive è parimenti ricco, colorato, pieno di luci abbaglianti e ombre tenebrose. Descrive una fantastica Bucarest, che prende vita sotto i suoi occhi, descrive la meraviglia del luoghi di campagna con i loro contadini, gli usi e i costumi, la cucina, i profumi, descrive l'apocalittica guerra tra angeli e demoni che sembra un Giudizio Universale di Giotto, descrive frammenti di guerra e piccoli accenni politici, storie bizzarre e fantastiche e molto altro, eppure tutto è ben incastrato. C'è molto misticismo, farfalle di tutti colori e tutte le dimensioni ma anche ragni, con pance rosse e rotonde che tessono la loro rete con la propria saliva.

Un grande pregio è anche il fatto che, seppur parte di una trilogia, a me la lettura di questo primo volume ha dato il senso di completezza anche nella sua singolarità, un vantaggio per quei lettori che magari non sono pronti ad affrontare una trilogia di corposa dimensione. Se questo primo volume piacerà al lettore, via libra agli altri due, se per qualche ragione dovesse invece trovare difficile o semplicemente non in linea con i propri gusti il lettore si può fermare, avendo comunque letto un libro con un capo e una coda e un messaggio coerente ben trasmesso. Personalmente andrò avanti con il secondo volume "Abbacinante. Il Corpo". E' un'esperienza di lettura unica e indimenticabile.

Piccola nota: le citazioni presenti in questa mia opinione sono tradotte da me e non estratte dalla edizione italiana Voland in quanto l'ho letto in lingua originale.

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Abbacinante. L'ala sinistra 2020-09-17 17:28:29 archeomari
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archeomari Opinione inserita da archeomari    17 Settembre, 2020
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La metamorfosi della vita

“Il passato è tutto, l’avvenire è niente, non esiste un altro senso del tempo. Viviamo su un pezzetto di calcare della sclerosi multipla del cosmo”.

Uno dei pochi autentici, e purtroppo quasi sconosciuti, capolavori della letteratura mondiale degli ultimi decenni, viene dalla Romania, ed è firmato da Mircea Cartarescu.
“Abbacinante” è una trilogia, imponente e geniale, che riproduce nel titolo, e ripropone in più parti, come motivo mistico-simbolico, il corpo di una farfalla: ala sinistra, corpo centrale e ala destra. Proposto in Italia da Voland, il primo volume in italiano è apparso nel 2008 e l’ultimo nel 2016.
Se dovessi delineare in poche parole che impressioni ho avuto nel leggere questo libro, direi che si è trattato di un abbagliante spettacolo di psichedelia e allucinazioni, simmetrie ed iper-simmetrie, una batteria di fuochi d’artificio con i suoi passaggi più esaltanti, i momenti dal ritmo più piano e poi una corposa terza parte che riprende il vortice allucinato di sogni e sensazioni delle prime pagine e confluisce in un finale che rimette a posto tutto le tessere e il cerchio si chiude. Ma non del tutto...la lettura del secondo e del terzo volume, ne sono sicura, renderà più chiare certe scelte narrative e i motivi della storia, la storia di Mircea Cartarescu, “questo libro illeggibile” cui ha dedicato ben 14 anni!
‘Ala sinistra’ comprende gli avvenimenti principali della sua infanzia e prima adolescenza, narrati in prima persona dal protagonista, lo stesso Mircea Cartarescu, in un lungo, ininterrotto flusso di coscienza, con notevoli salti temporali, in cui inserisce i personaggi reali dei suoi ricordi ed altri surreali, dei suoi sogni. Tra le pagine compaiono sempre delle farfalle, ora piccole, ora mostruosamente giganti, ora disegnate, ora incastonate in anelli, ora impresse nella pelle come la grande macchia rosa-violacea, un lupus eritematoso che sua mamma aveva sul fianco. La farfalla è un simbolo mistico, perché

“La mia memoria è la metamorfosi della mia vita, l’insetto adulto di cui la mia vita è la larva. E se non mi tuffo nell’abisso di latte che la circonda e la cela nella crisalide della mente, non saprò mai se sono stato o se sono una mantide vorace, un opilione sognante sulle sue zampe interminabili o una farfalla di bellezza sovrannaturale”.

“Il passato è tutto” si diceva all’inizio, citando un passo, ed è lì che bisognava investire le proprie energie, indagare come archeologi, perché “ogni scoperta è un ricordarsi”, uno scoprire se stessi. Attraverso quel continuum realtà-allucinazione-sogno- ricordo è possibile sperare di avvicinarsi ad un’altra dimensione, non meno reale della realtà presente. “Quella che chiamiamo comunemente ‘realtà’ non è che la superficie delle cose. La vita allucinatoria è vera quanto la vita ‘reale’”dice l’autore in una intervista raccolta da Vanni Santoni nella postfazione dell’edizione Voland.

Mille richiami ai grandi classici della letteratura di ogni tempo: Dante, Kafka, Proust. Un edificio di ricordi dai particolari vividi, ma inseriti in contesti allucinati, la stessa Bucarest, le cui viscere ammuffite, le cui gallerie sotterranee dove avvengono fatti surreali, non è quella reale, se non in parte. Bucarest è spesso la protagonista indiscussa delle notte allucinati del piccolo e malaticcio Mircea: seduto sulla cassapanca, coi piedi sul termosifone, dalla tripla finestra panoramica la città appare come in un trittico. Luci al neon che si accendono e si spengono, i fari dei tram e delle auto, talvolta la città con quelle luci colorate si trasforma in un enorme acquario, come la stessa stanza di Mircea.
Altro motivo narrativo e simbolico di questo libro è la costruzione per cerchi concentrici , il mise en abyme come notevole illusione ottica. Nelle sue visioni Mircea immagina il suo cervello inserito in una scatola cranica, che al suo interno ne contiene un’altra, e così via, tante scatole craniche quanti i gradi di conoscenza e consapevolezza raggiunti negli anni. Ed anche i ricordi funzionano come matriosche: la borsetta rossa della mamma, che funzione come archivio di famiglia, innesca tutta una serie di ricordi involontari, odori, sensazioni, luoghi, colori. Ancora:

“Il me di oggi ingloba il me di ieri, che comprende quello di ieri l’altro, e così via a ritroso, sicché non siamo altro che un’immensa sequenza di bambole russe celate l’una nell’altra, ognuna gravida di quella che l’ha preceduta (...). L’io di ogni attimo è legato a quello precedente tramite un vigoroso cavo ombelicale, con due arterie e una vena, trasportando gli ineffabili eritrociti della causalità”.

Un linguaggio sofisticato, immaginifico, ricco di termini scientifici. Un’opera monumentale di grande bellezza, arrivata in Italia con vergognoso ritardo e che merita di essere conosciuta da un pubblico più vasto.



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Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ama leggere libri dallo stile particolare, visionario, sofisticato, ricco di immagini e termini scientifici.
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