Abbacinante. L'ala destra
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IL MIRACOLO DELLA VITA
“Allora apro gli occhi e comincio a sognare”
Giunti al termine della lettura di “Abbacinante” si può apprezzare pienamente la simmetria sottesa alla costruzione della trilogia. Così come i titoli dei tre libri fanno riferimento alla figura della farfalla, in cui le due ali si presentano come immagini speculari rispetto al suo corpo, allo stesso modo ogni singolo volume può essere idealmente attribuito a un personaggio distinto, ossia Marioara nel primo e Costel nel terzo, le cui vite riflettono e compendiano quella del figlio Mircea, protagonista assoluto dell’intera trilogia, ma soprattutto perno unico e incontrastato della sua parte centrale. Ne “L’ala sinistra” ad esempio era stata narrata favolisticamente la discendenza di Marioara da Vasili, il ragazzo senz’ombra della stirpe dei Badislav, mentre ne “L’ala destra”, in modo altrettanto mitico, si racconta delle nozze mistiche, in una magica villa sul lago di Como, del principe Witold, appartenente all’aristocratica famiglia polacca degli Csartarowski, con Miriam, una ragazza ebrea che diventerà la bisavola di Costel. Con questo espediente leggendario Mircea si attribuisce una genealogia fuori del comune, un po’ – se vogliamo – come nei Vangeli di Matteo e di Luca, in cui Giuseppe viene fatto discendere dal re Davide, in modo da poter attribuire a Gesù la legittimazione di ultimo germoglio dell’albero di Jesse. Il riferimento alla Bibbia non è così peregrino, giacché l’opera di Cartarescu avoca a sé in diverse circostanze la qualifica di “vangelo”. E’ la singolare e particolarissima teleologia dell’autore romeno, secondo cui l’uomo è come un bruco, incapace di immaginarsi una realtà diversa dal suo essere un banale organismo amorfo, un semplice tubo digestivo dotato di vista, eppure destinato a trasformarsi in una mirifica farfalla, simbolo dell’anima che anela con tutta se stessa a un’ultravita trascendente e miracolosa. Siccome la salvezza non è malauguratamente per tutti, ma, similmente allo spermatozoo che, unico tra i milioni di altri spermatozoi, riesce a fecondare l’ovulo, è appannaggio solamente di un essere eletto, predestinato, Cartarescu attribuisce un carattere messianico a se stesso e alla sua opera. Non deve sorprendere perciò che in ogni pagina di “Abbacinante” l’unica parola che conta è: io. Autobiografia folle e visionaria, che si affida ai sogni e alle visioni per recuperare un passato in cui si nasconde il segreto più autentico dell’esistenza, “Abbacinante” è perciò stracolmo di momenti onirici, allucinati, in certi momenti simili a un vero e proprio trip lisergico. Nel suo megalomane ma indubbiamente geniale monologare, l’autore non si fa scrupolo di scomodare una misteriosa setta, gli Scienti, il cui compito è quello di volgere il corso della Storia per far sì che, al suo termine, il giovane Mircea sia in grado di scrivere il suo manoscritto; rischia consapevolmente il ridicolo descrivendo una sorta di miracolosa concezione, quando un bambino nasce dentro il cranio di Herman, “l’uomo della sofferenza”, cresce al suo interno come un tumore e viene dato alla luce in una sorta di apocalittico finale, in cui lo stesso Padreterno fa capolino, assiso sul suo trono, sopra la cupola della Casa del Popolo di Bucarest; e dissemina l’intero libro di altre fantasmagoriche sequenze oniriche, come quando Mircea vola sui tetti della capitale, risvegliando un intero popolo di statue, atlanti, cherubini, mascheroni e gorgoni che si animano e scendono dalle facciate e dai piedistalli per incontrarsi nell’oscurità deserta e silenziosa della notte, oppure quando Mircea sogna di scendere in un buio e profondo seminterrato dove ci sono le macchine che tessono il reale, creando i rimpiazzi e le parti di ricambio per le cose che nel mondo soprastante si logorano e si consumano, e da lì prosegue in altri mondi, stupefacenti o spaventevoli, incontrando uomini scheletrici e mutilati, pupari di lepidotteri dentro sarcofagi iridescenti, statue ciclopiche, trasformandosi addirittura in una ragazza e sperimentando il terrore più insopportabile come la bellezza più estatica. I sogni per Cartarescu sono più reali della stessa realtà: tramite essi l’autore può tornare nella casa di Floreasca abitata quando aveva solo pochi mesi di vita, quando cioè era troppo piccolo per serbare dentro di sé una qualche memoria, e può recuperare i ricordi, le sensazioni, perfino gli odori e i colori, di tutte quelle esperienze parimenti seppellite in antichissimi strati archeologici del proprio io. La fantasia si confonde pertanto con la vita, come se ci trovassimo sopra un nastro di Mobius con un lato di realtà e uno di sogno, entrambi riflettendosi a vicenda, ognuno dalla parte opposta dello specchio.
Se il manoscritto di Mircea è “più vero del mondo”, tuttavia la realtà preme, pretende spazio con la sua cruda, urgente evidenza, e alla fine fatalmente si impone. Siamo alla fine del 1989 e, similmente a quanto accade in altri Paesi dell’Europa dell’Est, anche in Romania scoppia la rivoluzione. Il dittatore Ceausescu, che ha governato dispoticamente il Paese per decenni, imponendo il più bieco culto della personalità, affamando letteralmente la popolazione e terrorizzandola con la sua polizia segreta, la famigerata Securitate, viene crudelmente deposto dopo una sanguinosa insurrezione. “Sono tempi difficili, tempi apocalittici. Stanotte ho visto persone morire – scrive Cartarescu -. Cosa c’entro io con tutto ciò?” Il “mostro solitario, senza donna, senza casa, senza una pietra su cui poggiare capo, destinato a scrivere, per anni e anni, un libro illeggibile e infinito, ma che avrebbe sostituito un giorno l’universo”, è costretto ad uscire dalle sue “caverne interiori” per trovarsi “immerso fino al collo nelle sottane sporche della storia”, a gridare nelle piazze di Bucarest, in mezzo a migliaia di altri dimostranti, slogan contro il dittatore, e venire perfino arrestato per una notte. E’ una sfida enorme, per colui che ha fatto dell’io il solo Verbo possibile, quella di confrontarsi con “questo scarabocchio osceno sopra un muro chiamato Storia”. Cartarescu vorrebbe essere come “l’uccello che vola sopra il campo di battaglia e non sa cosa significa Stalingrado”, ma l’attualità impellente lo riporta giù a terra, schiacciato tra decine di altri corpi accaldati e infervorati. Come fare allora per impedire che il manoscritto diventi diario, “intriso di ciò che più ho detestato fino a oggi: della trama di caos e pestilenze e orde e sovrani e mancanza di senso e infelicità; cioè di storia, storia, storia”? Al contrario di Uwe Johnson, che ne “I giorni e gli anni” aveva scelto, in polemica con il narcisismo solipsistico tipico di certa letteratura allora in voga, proprio la forma del diario, Cartarescu decide di raccontare la rivoluzione alla sua maniera, e cioè fantasmagoricamente, il più possibile lontano dal piatto realismo: basti pensare che essa è rappresentata da una gigantessa alta dieci metri, abbigliata con il costume tradizionale romeno, che la scalcagnata troupe di un circo bucarestino sfrutta cinicamente per prendere il potere rimasto vacante, per poi stuprarla in una sorta di orgia collettiva. Simbolismo e fantasia si mescolano in maniera inestricabile, la realtà scivola nel misticismo, e la stessa Casa del Popolo, simbolo del potere assolutistico di Ceausescu, si trasfigura diventando una location favolosa e assurda, con corridoi infiniti, statue alte decine di metri e cupole che arrivano, come una torre di Babele dei tempi moderni, fino al cielo.
“L’ala destra” è un distillato del Cartarescu più puro. Il sogno si confonde con la realtà, la finzione letteraria con la vita (“Non so più quando vivo e quando scrivo”), il testuale con il metatestuale (il giovane Mircea che scrive il manoscritto si sovrappone all’autore adulto che compone il libro che stiamo leggendo e che spesso si rivolge direttamente al lettore in una sorta di dialogo extra-diegetico), l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo (si pensi al sogno in cui Mircea, rinchiuso in un autobus sovraffollato, si solleva fino a vedere dall’alto la città, e poi l’intero pianeta nella notte profonda piena di stelle, fino a perdersi in una miriade di mondi, e poi a quello opposto in cui il piccolo protagonista, guardando il muro della sua stanza con una risoluzione quasi infinita, penetra, come se fosse chino su un microscopio, nella struttura infinitesimale della materia, dagli acari dal corpo traslucido alle loro cellule, dai quark fino “ai granuli di spazio e alle perle di tempo che nemmeno la vista in assoluto più penetrante, quella degli embrioni, degli angeli e dei defunti, avrebbe mai potuto eviscerare”). In questo libro che sembra non avere un baricentro e che non a caso lo stesso autore definisce illeggibile, in questo testo dalla struttura frattalica (“ogni punto posto sopra l’immensa mappa concava era tutti i punti, ogni volto tutti i volti”), in questa opera contorta e tortuosa in cui il futuro non esiste se non come nostalgia e il passato è conoscibile solo attraverso il sogno o il delirio, il lettore rischia più volte di perdersi. Eppure, quando tutto sembra vorticare nel caos più totale, fino a far assomigliare “Abbacinante” a una sorta di Apocalisse giovannea, con una improbabile nascita di un Messia dal cervello-utero di Herman, con le statue animate di Bucarest a fare le stravaganti veci dei pastori della Natività, e gli abitanti della capitale distrutta assunti al cielo in una sorta di boschiano Giudizio Finale, alla fine Cartarescu riesce miracolosamente a dipanare tutti i fili dell’aggrovigliata matassa intrecciata nel corso dei tre tomi. Nel titanico Palazzo del Popolo tutti i simbolismi (le farfalle, le statue, i labirinti, gli specchi) trovano la loro ragion d’essere, tutte le antinomie (immanenza/trascendenza, scatologia/escatologia, oscurità/luce, cervello/sesso, sofferenza/estasi, peccato/purezza, uomo/donna) vengono condotte alla loro riconciliazione, così come tutti i personaggi della trilogia, quelli apparsi anche solo in una riga o dentro una parentesi, perfino il gemello perduto Victor, scorrono in rassegna in un modo che mi ha ricordato il pirotecnico finale del felliniano “8 e ½”. Quello che è indubitabilmente uno dei più originali capolavori della letteratura contemporanea si conclude in una spettacolare sarabanda che sancisce, a dispetto di ogni constatazione pessimistica (che il mondo è abietto e crudele, che la vita dura troppo poco, e così via), il miracolo dell’esistenza. Se è vero che l’uomo è un pigro animale che sembra aver dimenticato che il suo destino è quello di evadere dai rigidi confini in cui è intrappolata la propria esistenza per assurgere a quelle altezze trascendenti che vanno ben al di là delle tre dimensioni che i suoi sensi sono in grado di percepire, è altrettanto vero che ogni vita, anche la più transitoria, anche la più miserabile, è un prodigio ineguagliabile, e Cartarescu lo confessa in una maniera inaspettatamente commovente: “Eppure, che miracolo essere esistito! Come sarebbe stato se non fossi mai nato? O se fossi stato un verme in fondo all’oceano, un virus in una cellula infetta? Come sarebbe stato se non avessi potuto dire a te, che leggi ora queste righe: ho vissuto. E vivo ancora. Sono accanto a te, sono in te, sono nella tua mente e nel tuo cuore. Non posso vedere i raggi x e i raggi gamma, non posso sentire ciò che sentono i pipistrelli, non avverto il fremito vivo dell’universo, non comprendo la fragranza di rosa della mente, non posso far sì che la montagna si getti in mare. Posso però muovere le mie dita e posso vedere il blu e il verde, e posso udire il sussurro di certe labbra a me care. Non mi ricordo la faccia di Artaserse, ma non dimenticherò mai quella del vecchio Nicu B??. Non ho vissuto che un momento, ma abbastanza per potere dire: ho vissuto.”