A colpi d'ascia
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 2
Top 100 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Siamo figli di Giuda
"Bosco, bosco ad alto fusto, a colpi d'ascia."... ecco la frase chiave del romanzo, che prende il titolo.
Con la lettura di questo romanzo ho concluso la Trilogia sull'arte di Bernhard, assieme a "Il Soccombente" e "Antichi Maestri". Il tema focale del romanzo è l'arte drammaturgica, il teatro, il suo pubblico, gli attori e gli scrittori, insomma tutto ciò che ruota attorno. Il libro stesso, ha un forte sapore teatrale, il lettore avrà l'impressione di trovarsi in una platea, in oscurità, seduto comodamente mentre osserva una scena illuminata nella quale sono presenti i personaggi- attori che si esibiscono in una commedia dal sapore dissacrante. Attraverso gli occhi impietosi del narratore assistiamo a una "cena artistica" nella quale nessuno si salva, tutti sono disgustosi e vili, falsi, vittime e carnefici contemporaneamente, narratore incluso che non si risparmia ma si aggiunge al muro assieme agli altri. Bernhard ha un marchio tutto suo e si riconosce dalla prime battute anche dai lettori che lo frequentano poco. Anche qui è presente, naturalmente. Quando si inizia un suo libro è difficile staccarsi dalle pagine, seppur di non facile lettura, riesce tuttavia ad avere un effetto ipnotico sul lettore che gli impedisce di abbandonare tale lettura. Anche la grande comicità e la pungente ironia che lo contraddistingue arriva a soccorrere un lettore in difficoltà:
"Una lucciperca all'una meno un quarto di notte per colpa di un attore del Burg nella cui barba si erano andati a impigliare dei pezzetti di quella stessa zuppa di patate che lui stava mangiando a cucchiaiate con la massima velocità, neanche fosse sul punto di morire di fame. Ekdal, disse lui, prendendo un cucchiaio di zuppa, Ekdal è stato il ruolo che ho desiderato per decine di anni, e poi, prendendone un altro cucchiaio e, insomma, ingoiando un cucchiaio di zuppa ogni due parole, Ekdal, disse, e giù un cucchiaio di zuppa, da sempre, e di nuovo un cucchiaio di zuppa, il mio ruolo preferito, e seguito col cucchiaio a mangiare la zuppa, e ancora, dopo due cucchiai di zuppa, di anni, seguitò, e l'espressione ruolo che ho desiderato la disse proprio come se stesse parlando di una leccornia, penso. Disse più volte Ekdal è il mio ruolo preferito, e io mi domandai subito se avrebbe continuato a parlare di Ekdal come del proprio ruolo preferito anche se non avesse ottenuto alcun successo con il suo Ekdal."
Con la sua prosa prende a colpi d'ascia tutti i presenti, ma anche in generale le istituzioni che girano attorno al teatro e anche il suo pubblico, una grandinata di odio e di feroci critiche su di essi ma, una volta sfogata questa specie di rabbia, così come dopo una tempesta si intravede un arcobaleno, nello stesso modo il narratore ammette di amare quelle stesse persone, di amare Vienna, il popolo austriaco, di essere migliori rispetto a moltissimi altri, di amarli perché sono "suoi". Alla fine della cena si congeda con un bacio di Giuda, un bacio falso, dettato dalla circostanza, ma che sotto sotto, forse, è vero.
"Per metterci in salvo da una situazione disperata, penso, diventiamo falsi e bugiardi proprio come quelli che accusiamo continuamente di essere falsi e bugiardi e che per questo motivo trasciniamo nel fango e copriamo di disprezzo, la verità è questa; in niente di niente noi siamo meglio delle persone che continuiamo a ritenere insopportabili, disgustose, ripugnanti insomma, persone con cui sosteniamo di voler avere a che fare il meno possibile, mentre a dir la verità abbiamo continuamente a che fare con loro e siamo identici a loro."
Indicazioni utili
Un bacio sulla fronte
(Anche) “A colpi d’ascia” è una stupefacente liquidazione del mestiere romanzesco e, in particolare, della composizione accademica: completo disinteresse per l’allestimento narrativo e per la strategie di suspense. Tutto in Bernhard è scrittura, decostruzione di una ipocrisia connaturata nell’uomo e, anzitutto, nell’intellettuale. La scena del romanzo è psichica, con sollecitazioni esterne perlopiù luttuose (qui il suicidio di un’amica e, come accade sovente, un suicidio “annunciato”) o ridotte a spunto per raccontare, tra insofferenza e plateale esaurimento, grette abitudini sociali, una sorta di nevrosi austriaca e, nella fattispecie, viennese (la “cena artistica” a casa dei coniugi Auersberger). La scrittura si affida a una spirale di elucubrazioni e instancabili rimuginii, senza mai scivolare in flusso di coscienza – perché non si tratta di riprodurre soliloqui, come farebbe un guitto degli stili letterari, ma di abbandonarsi al rinvangare ossessivo del pensiero. Così, a ogni pagina, ritornano parole emblematiche, tipo “disgusto”, “rivoltante”, “catastrofico”, “atroce”, “nauseante”; o intere frasi in un concatenamento della più profonda sfiducia nel genere umano, a cominciare dalle sue istituzioni (lo Stato ridicolo, il disastroso Burgtheater, etc. ). Il giudizio impietoso sulla meschinità dell’Uomo, tra vittime e carnefici che si scambiano il ruolo, si abbatte in primis sui sentimenti. L’amore, ineluttabilmente, diventa odio; l’amicizia feroce disprezzo: Bernhard stesso patisce questo deterioramento degli affetti: negli anni Cinquanta, spiantato, adorava gli Auersberger, frequentava con assiduità la loro casa, sopraffatto dagli agi borghesi, da un’aristocrazia dello spirito alla quale, giovane e inesperto, desiderava innalzarsi. Trent’anni dopo, la biblioteca di famiglia, gli arredi d’epoca, i cibi prelibati, la mondanità di cui aveva profittato, gli appaiono un adescamento, una menzogna. I suoi amici l’avevano, sì, riconosciuto come scrittore e introdotto nella società degli artisti, ma non si era trattato di “mecenatismo”; lui si era inserito in una storia di grandiosa ospitalità che riempiva un vuoto coniugale dilagante, aveva interpretato la parte del giullare per una coppia letteralmente devastata dalla noia. Tutti i rapporti, di fatto, si giocano su questa reciproca economia, con un debitore che, presto o tardi, si sente in credito. La posta in palio è l’identità, e il “valore” che ciascuno sente di rappresentare. Perciò, alla fine, non c’è pietà né perdono – nonostante ci si congedi, per sempre, con un bacio sulla fronte.