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Recensione della Redazione QLibri
Quattro vite per diventare uomo
Uno dei romanzi più attesi dell'anno che sta volgendo al termine, definito dai critici “il capolavoro di Paul Auster” o “una poderosa autobiografia”.
La mole è importante, non passano inosservate novecento pagine e la lettura richiede tempo per la numerica delle righe e tanto impegno per entrare nella ragnatela narrativa.
Non una vita narrata, bensì quattro possibili vite, quattro strade che il nostro giovane protagonista avrebbe potuto percorrere.
Un racconto che si dipana dalla soglia degli anni Cinquanta percorrendo un ventennio, il tempo che racchiude infanzia, adolescenza e giovinezza di un ragazzo americano come tanti, entrando all'interno delle dinamiche familiari e formative, facendole specchiare continuamente con la situazione socio-politica del periodo.
Il piccolo Archie, nasce, cresce e si forma attraverso tutte le vite che Auster gli cuce addosso, in una continua corsa ad ostacoli tra le beffe del destino e le difficoltà del vivere cui nessuno è esente.
Aspirazioni e delusioni, amori e solitudini si fondono in tutte le vite possibili.
Niente sconti forniti dalla sorte, l'essere umano si deve guadagnare ogni traguardo.
Lo schema narrativo è supportato da un contenuto florido e straripante di dettagli di nomi, luoghi, fatti, persone, opere letterarie, che portano talora allo sfinimento.
D'altronde l'autore deve dare la misura al suo lettore della formazione di un giovane nato nel 1947, in pieno periodo post bellico, in una America con numerose problematiche interne da risolvere, con conflitti sociali da gestire e da sanare.
Tanto lo spazio dedicato alla formazione scolastica, all'ingresso nel mondo variegato dei college, all'incontro con il mondo della scrittura sia essa vena poetica, giornalismo oppure narrativa.
Giunti al termine del labirinto dopo tanto viaggiare tra la marea di pagine, viene difficile pensare che Auster non abbia ritratto un pizzico di se stesso, soprattutto in quell'insistere sulla vocazione per la scrittura, presenza costante di tutte le vite del protagonista, oltre a rappresentare un periodo da lui vissuto.
Si percepisce fortemente che la penna che scrive era presente ed ha vissuto là e in quel tempo, lasciando nel romanzo un'impronta personale e palpitante.
Al termine del lungo viaggio è naturale interrogarsi se il costrutto complesso sia del tutto necessario ai fini dell'economia della narrazione o se una sapiente sfrondata lo avrebbe reso più agevole e più appetibile. Detto ciò e lasciando aperto l'interrogativo, il romanzo è senza dubbio frutto di un grande lavoro di scrittura, volutamente prolisso in alcune parti, una narrativa che abbraccia la storia senza perdere di vista il percorso psicologico dei protagonisti. Un percorso che si divide in un quadrivio, per confluire nell'esemplificazione della vita di un uomo, tra vita e morte.
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4 vite, 4 buone ragioni per leggerlo
La mole è notevole, quasi 1000 pagine complessive, ma in fin dei conti pensando che vengono narrate le vicende di quattro differenti vite alternative della stessa persona, il giovane Archie Ferguson, si tratta di una lunghezza accettabile (“identici ma diversi, ovvero quattro ragazzi con gli stessi genitori, lo stesso corpo e lo stesso corredo genetico, ma che vivevano ognuno in una casa diversa in una città diversa in circostanze a sé stanti“). Soprattutto considerando che le ragioni per affrontare questa fatica letteraria di Paul Auster sono sintetizzabili almeno in quattro, proprio come le vite di Ferguson.
La prima di queste può essere rappresentata dal piacere di leggere un romanzo (parzialmente) autobiografico nel quale si trovano le origini ebraiche dell’autore, storie che si dipanano lungo “i luoghi del cuore” dello stesso Auster: la città di Newark ed i suoi sobborghi, nel New Jersey, dove è nato ed ha vissuto parte della sua vita, l’onnipresente New York dove tuttora risiede. Auster si diverte a mescolare le carte, le situazioni, le vicissitudini dei personaggi principali come Ferguson, i suoi i genitori, i parenti e l’onnipresente Amy, disegnando per le loro vite traiettorie e varianti che potrebbero confondere il lettore ma allo stesso tempo solleticarlo a prendere appunti per non perdere il filo della narrazione.
La seconda ragione sta nel fatto che la (turbolenta) storia americana del XX° secolo ed in particolare gli anni '60, la guerra del Vietnam, la contestazione politica studentesca nelle università, gli scontri razziali, le proteste di strada, sono altrettanti protagonisti di questo libro. Auster non lesina critiche nel rappresentare con obiettività la crisi politica di quegli anni di cui i suoi personaggi sono pienamente consapevoli (“Ferguson e i suoi amici si rendevano conto di vivere in un mondo irrazionale, in un paese che assassinava i suoi presidenti e legiferava contro i suoi cittadini e mandava i suoi giovani a morire in guerre senza senso”).
La terza ragione consiste invece nell’importanza che la letteratura e la scrittura assumono nel libro. Sono presenti pagine e pagine con elenchi di libri e autori da leggere, oppure letti dallo stesso Ferguson, classici e non, che sembrano assolutamente vitali per riuscire a sviluppare un’identità ed una coscienza morale e civica. Inoltre, in tutte queste mille pagine, emerge l’importanza assunta dalla scrittura per lo stesso Ferguson-Auster. Scrivere diventa una necessità quasi come si trattasse di respirare ed il destino del protagonista pare ineluttabile (“la verità era che non aveva scelta, il suo destino era scrivere o morire, perché nonostante le fatiche e l’insoddisfazione per le pagine inerti che spesso produceva, scrivere lo faceva sentire vivo come non mai”).
La quarta ragione per leggere 4321 infine, riguarda il cinema che è ugualmente e degnamente riconosciuto nella sua grandezza. Tante sono le pellicole citate, così come i pomeriggi passati da Ferguson davanti al grande schermo. E tra i tanti film nominati trova degno spazio anche la "Corazzata Potemkin", alla quale vengono dedicate alcune pagine epiche, richiamando alla memoria sequenze immortali (di fantozziana memoria) come ad es. quella della carrozzina col bambino lungo la scalinata e il celeberrimo occhio della madre: “Fu insopportabile guardare la madre abbattuta dai soldati dello zar, insopportabile guardare l’uccisione della seconda madre e l’atroce viaggio della carrozzina per le scale…”.
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La uno la due la tre o la quattro?
Libro che si può leggere in orizzontale ed in verticale ed è una scelta stilistica originalissima, perché, con un’opera immane, che sembra un concerto di un’orchestra, offre quattro racconti di vite possibili della medesima persona, un po’ stile “sliding doors”, con un’impronta fortissimamente americana. La si vede nel contesto sociale e storico che fa da sfondo, nel peso che viene dato al baseball, nei piccoli particolari. In orizzontale affronti le varie fasi della vita nelle sue quattro possibili versioni. In verticale leggi una vita per volta e potrebbero tranquillamente essere quattro distinti romanzi e/o racconti, perché non tutti hanno la stessa lunghezza. Diciamo che alcune vite terminano prima di altre. Io ho scelto di leggerlo in orizzontale, che non è altro che il modo con cui lo scrittore ce lo offre, e secondo me è il modo in cui più apprezzi sia le differenze, sia anche gli elementi comuni, come ad esempio l’amore per i libri e la presenza di Amy. E’ un libro che ti cala appieno dentro il concetto della fatalità, declinata in tutte le sue forme, e della possibilità, con tutto ciò che le scelte o non scelte di vita comportano a cascata.
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Maestosamente plateale
Un intreccio di storie, un groviglio di personaggi, una continua intersezione di spazio e tempo degno di Honoré de Balzac.
L'autore, come un abile architetto, tesse le fila dei personaggi e sconvolge le loro vite inserendo dati e fatti che cambiano, che si somigliano, che rendono i protagonisti di questa storia tutti diversi tra loro e tutti uguali tra loro.
4 3 2 1 è infinitamente grande, trasporta in un mondo parallelo dal quale si è risucchiati dalla prima all'ultima parola. Un disegno, un disegno ad acquerello nel quale ci si perde tra le mille tonalità dello stesso colore, nel quale la gamma del rosso muta ad ogni pagina che si volta.
Da leggere tutto d'un fiato, oppure a capitoli alterni, oppure prendendo appunti di quel che succede per ricollegare poi, come se fossero costellazioni, tutte le vicende della stessa storia.
Un libro nel libro a volte, un metalibro che riesce a parlare di stesso e a spiegarsi mano a mano che si prosegue nella lettura.
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IL ROMANZO DEI DESTINI CHE SI BIFORCANO
“Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri” (Jorge Luis Borges, “Il giardino dei sentieri che si biforcano”)
In uno dei suoi racconti più famosi, contenuto nella raccolta “Finzioni”, Borges immagina un libro-labirinto in cui ogni evento può condurre a una molteplicità di conseguenze, e queste a loro volta ramificarsi in altrettanti scenari diversi, e così via fino a ipotizzare un’infinità di futuri alternativi. “In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre” mentre in questa fantomatica opera “ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. […] Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità.” Partendo da una simile, vertiginosa premessa, Paul Auster sceglie di costruire quattro versioni differenti del suo protagonista, raccontandole in parallelo, saltando dall’una all’altra per poi tornare alla prima e così via fino alla fine delle quasi mille pagine del libro, e, muovendosi da un punto di partenza comune a tutte, si diverte a osservare come gli innumerevoli e imprevedibili casi della vita le conducano progressivamente verso destini non solo non coincidenti tra loro, ma anzi profondamente differenti. All’inizio del romanzo, dopo un prologo che serve a presentare i genitori del protagonista, Stanley e Rose, lui proprietario di un avviato negozio di elettrodomestici, lei titolare di un piccolo studio fotografico, ci troviamo nel 1947, anno di nascita del loro unico figlio, Archie Ferguson. Da qui in avanti la storia si dipana seguendo le vicissitudini alternative dei quattro Ferguson, tra fortune impreviste e disgrazie improvvise, amicizie ed amori, film e romanzi, baseball ed università, Parigi e New York. Ovviamente ci sono delle “sliding doors” che costituiscono dei veri e propri punti di svolta della vicenda, come la sorte del negozio che, nella versione più ottimistica, ottiene un notevole successo commerciale, assicurando in tal modo la prosperità economica della famiglia, mentre nella versione più pessimistica, finisce divorato dalle fiamme insieme al capofamiglia, trasformando Ferguson in un orfano. E’ il caso a dominare l’universo di Auster, se si pensa che anche un semplice incontro di baseball può condurre a conseguenze imprevedibili, trascendendo completamente qualsiasi velleità di controllo e di autodeterminazione della propria esistenza. In questo senso “4 3 2 1” mi ricorda un vecchio film polacco di Krzysztof Kieslowski, “Destino cieco”, in cui un banale scontro con un mendicante alla stazione ferroviaria mentre sta cercando di prendere il treno per la capitale conduce il protagonista Wytek, a seconda che riesca o meno a salire sul treno, a tre antitetici futuri alternativi: nel primo Wytek diventa un membro del partito comunista, nel secondo partecipa alla lotta clandestina contro il regime, nel terzo finisce per scegliere un atteggiamento apolitico concentrandosi sulla carriera e sulla famiglia. Si capisce bene che credere o meno all’univocità del proprio destino porta a conseguenze filosofiche, morali e religiose molto differenti. Si pensi alla scelta tra bene e male, tra giusto e sbagliato, su cui spesso si trova a riflettere Ferguson. C’è una illuminante pagina in cui Ferguson immagina di dover recarsi in automobile a un importante appuntamento e di avere a disposizione due strade alternative. Se non ci sono contrattempi di sorta scegliere una strada o l’altra è assolutamente indifferente. “Ma è qui che diventa interessante. Prendi la strada principale, c’è un tamponamento a tre, il traffico è fermo per più di un’ora, e mentre sei nella tua auto pensi solo alla strada secondaria e ti chiedi perché non l’hai presa. Ti maledici per aver fatto la scelta sbagliata, eppure come lo sai se hai sbagliato davvero? Vedi mica la strada secondaria? Sai cosa sta succedendo sulla strada secondaria? Qualcuno ti ha detto che una sequoia enorme è caduta sulla strada secondaria e ha schiacciato un’auto in transito, uccidendo il conducente e paralizzando il traffico per tre ore e mezza? Qualcuno ha guardato l’orologio e ti ha detto che se avessi preso la strada secondaria l’auto rimasta schiacciata sarebbe stata la tua e tu saresti morto? O ancora: non è caduto nessun albero e hai sbagliato a prendere la strada principale. O ancora: hai preso la strada secondaria e l’albero è caduto sul conducente davanti a te, e mentre sei nella tua auto a rimpiangere di non aver preso la strada principale, non sai niente del tamponamento a tre che ti avrebbe comunque fatto perdere l’appuntamento. O ancora: non c’è stato nessun tamponamento a tre e hai sbagliato a prendere la strada secondaria.” La morale della storia, conclude Ferguson, è che non è mai possibile sapere se si è fatta la scelta sbagliata, a meno di non essere in due posti nello stesso momento, cioè a meno di non essere Dio. C.S. Lewis, in un libretto intitolato “Il Cristianesimo così com’è”, paragonava l’essere al di fuori del tempo da parte di Dio (per cui, ad esempio, “se alle dieci e mezzo ci sono un milione di persone che Lo pregano, non occorre che Dio le ascolti tutte in quel granello di tempo che chiamiamo le dieci e mezzo” in quanto “Egli ha a disposizione tutta l’eternità”) all’attività di uno scrittore, il quale non è condizionato dal tempo immaginario del suo romanzo, potendo soffermarsi per ore su una singola frase del racconto oppure contemplare l’inizio e la fine della storia nello stesso momento, così come Dio nella sua eternità può vedere il presente, il passato e il futuro. Questo paragone tra Dio e lo scrittore non mi sembra ozioso, in quanto in “4 3 2 1” (sebbene di Dio non vi sia quasi traccia) Paul Auster, che è un artista che nei suoi romanzi (si pensi solo a “Trilogia di New York”) si addentra sovente in territori meta-letterari, equipara il ruolo dello scrittore a quello del demiurgo. Non è un caso che tra la creazione letteraria e la vita, intesa nel senso borgesiano visto finora, vi sia una sorprendente affinità (“Ogni frase era una lotta, ogni parola di ogni frase avrebbe potuto essere una parola diversa”), nel senso che anche di un libro potrebbero esistere infinite versioni, a seconda del particolare stato d’animo o dell’ora della giornata in cui lo scrittore si mette di fronte alla pagina bianca. E non è un caso anche che tutti i Ferguson abbiano in qualche modo a che fare con la scrittura (dal giornalismo alla poesia, dalla narrativa alla autobiografia), assurgendo in un certo senso ad alter ego di Auster. Anzi, con un sorprendente colpo di scena finale, lo scrittore spariglia le carte e, mescolando la finzione con la realtà, la fantasia con la storia, l’invenzione con la biografia, confonde il creatore con le sue creature e si mette arditamente faccia a faccia con il lettore, senza più alcuna distanza, alcun filtro protettivo.
“4 3 2 1” è un libro che si interroga sul concetto di identità e sul ruolo del caso (o del destino che dir si voglia). Se è vero che ognuno di noi può essere differente a seconda di ciò a cui gli avvenimenti, spesso le coincidenze fortuite, ci mettono di fronte, cosa possiamo dire di noi? Chi realmente siamo? C’è una versione di noi stessi che si possa definire più autentica? Siamo artefici del nostro destino o siamo delle semplici marionette governate dalle circostanze? Se per Pirandello l’uomo è “uno, nessuno, centomila” a seconda di come gli altri lo vedono, per Auster questa frammentazione diventa interna all’individuo, in quanto tutte le vite, quella reale e quelle non vissute, formano un labirinto in cui la ragione inesorabilmente si perde, passando dalla molteplicità del possibile alla unicità della realtà. Il compito dell’autore, di Paul Auster come del Ferguson-scrittore, diventa quindi quello di ricondurre a unità il molteplice, di elaborare il lutto di tutte le vite che non abbiamo vissuto, facendoci accettare l’unica che abbiamo intrapreso e assolvendoci dai sensi di colpa per quello che avremmo potuto essere e non siamo diventati.
Visto in questa ottica “4 3 2 1” è un romanzo caratterizzato da una densità filosofica impressionante. Eppure, anche se finora l’ho voluto presentare soprattutto come un romanzo capace di sviscerare una miriade di possibilità narrative, esso è anche un libro insolitamente essenziale, dotato di una facilità di racconto che potrebbe definirsi addirittura dickensiana, un libro avvincente che, nonostante la sua mole, si legge con incredibile velocità. La scrittura di Paul Auster è estremamente elaborata, ma come spesso capita con i grandi maestri (penso ad esempio a Philip Roth), questa complessità di stile non va mai a discapito della semplicità e della “leggibilità”. Auster sa dare vita a personaggi memorabili, destinati a rimanere a lungo nei ricordi del lettore (personaggi che a volte compaiono in momenti differenti delle vite di Ferguson, in alcuni casi stagliati più vividamente in primo piano, in altri più sfumati sullo sfondo, a riprova del fatto che, nonostante la divaricazione dei futuri del protagonista, vi sono alcune costanti ineliminabili). Si pensi ad Amy, l’amica vivace, passionale, volubile e sensibile ai problemi sociali, “la straordinaria Amy Schneiderman, la ragazza che Ferguson aveva desiderato con tanta disperazione da soffrire ancora al pensiero di quello che avrebbe potuto essere e non era stato”. O alle altre figure femminili che attraversano la vita di Ferguson, lasciando una inconfondibile scia che permette a “4 3 2 1” di essere anche un mirabile saggio sul desiderio amoroso, in un’età (l’adolescenza e la prima giovinezza) in cui certe emozioni (il primo bacio, la prima volta, l’erotismo, la sensualità, la passione, il dolore di un addio, la nostalgia di una lontananza) si scolpiscono indelebilmente nell’animo umano. Come tutti i grandi romanzi americani, “4 3 2 1” è anche uno straordinario affresco storico: le traiettorie dei quattro Ferguson attraversano anni cruciali della storia degli Stati Uniti, dall’assassinio di Kennedy a quello di Martin Luther King, dalla guerra in Corea a quella del Vietnam, dalle lotte per i diritti civili alle contestazioni studentesche, dalle insurrezioni razziali agli scandali politici, fondendo in maniera apprezzabile il privato con il sociale, il singolare con il collettivo, ricordandoci che l’uomo non può mai essere definito al di fuori del contesto storico in cui vive e agisce. “4 3 2 1” è infine un romanzo straordinario, un libro che, come tutti i veri capolavori, apre spiragli di inusitata suggestione, lasciando intuire molto più di quello che appare sulla pagina scritta, un libro che dà le vertigini e si vorrebbe non finisse mai (che bello se ci fossero altri cinque, dieci, cento Ferguson), ma che nel momento in cui finisce sa lasciare di stucco per la sua capacità di esaurire l’inesauribile, di contenere l’incommensurabile.