Partenza in gruppo
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HIGH SOCIETY
“Se non fosse così ridicolo sarebbe assolutamente comico”
In un famoso film del 1962, “L’angelo sterminatore”, Luis Bunuel immaginava che un gruppo di altolocati borghesi non riuscissero in alcun modo ad uscire dalla casa in cui erano stati ospiti per una cena, intrappolati da una sorta di misterioso ed inspiegabile maleficio. Una situazione del genere viene vissuta anche dai personaggi di “Partenza in gruppo”: qui lo spunto è meno surreale, è la fitta nebbia londinese a costringere le ferrovie a cancellare la partenza di tutti i treni del pomeriggio, fatto sta che la comitiva che baldanzosamente si stava apprestando, con bagagli e servitori al seguito, a partire per una vacanza nel sud della Francia, è costretta ad asserragliarsi per diverse ore nell’albergo della stazione, mentre migliaia di pendolari si accalcano all’esterno in balia del freddo e dell’oscurità. Green divide in due l’umanità del suo romanzo, chi sta dentro al caldo e al sicuro, vittima al massimo della noia e dell’incertezza sugli sviluppi dell’emergenza, e chi è invece costretto a stare fuori, in preda alla frustrazione e al malcontento. Senza darlo troppo a vedere, con la grazia e lo humour tipicamente britannici di un Waugh, Green fa un’opera sottilmente, implacabilmente politica. Il gruppo di privilegiati di “Partenza in gruppo” si ostina pervicacemente a mettere in scena un raffinato gioco di società, in cui la posta in palio è l’affermazione del proprio ruolo, la conferma del proprio status sociale, da perseguire tramite sottili seduzioni, stratagemmi per accendere gelosie, alleanze che si formano e si sciolgono a seconda delle convenienze. A trionfare è il vaniloquio, il chiacchiericcio, il futile spettegolare (uno dei leitmotiv è la reiterata conversazione, assolutamente frivola e insignificante, su Richard il console e sul fatto che egli si sia pubblicamente scusato per non aver potuto partecipare a un ricevimento dell’ambasciatore al quale non era stato neppure invitato). Concentrati sulle loro tresche amorose, sui vestiti da mettere in valigia, sui bagagli lasciati forzatamente incustoditi nelle banchine, essi sono snobisticamente indifferenti alla sorte di chi è rimasto fuori (“chi se ne importa dell’uomo della strada e di quello che pensa”, “quelli stavano in basso e dovevano restarci”), ma una serie di inquietanti segni premonitori (ad esempio, l’uccello morto che cade ai piedi della signora Fellowes all’inizio del romanzo e che la donna, dopo averlo lavato, porta inspiegabilmente con sé chiuso in un sacchetto di carta) e la mal dissimulata atmosfera di paura che progressivamente, subdolamente, si insinua nelle lussuose stanze dell’hotel, finisce per generare un clima di insicurezza, di angoscia e di paralisi. La malattia della signora Fellowes, che sembra sia lì lì per morire anche se - probabilmente – è solo ubriaca, e la calca di gente assiepata fuori dell’albergo, che si dice stia tentando di forzare i cancelli sprangati per dare l’assalto ai suoi ospiti, sono i segnali che minacciano di mandare a gambe all’aria lo status quo e di far precipitare i nostri fatui personaggi dal piedistallo delle loro apparentemente incontestabili prerogative.
Henry Green dissemina il romanzo di numerose, insistite allusioni funebri: Alex vede se stesso come “un fantasma che attraversa le strade dei vivi”, Julia pensa alla gente nella hall dell’albergo come se “fossero tutti morti e in attesa davanti ai cancelli”, mentre le pile di bagagli sono come “un cimitero esagerato” e la vista della gente ammassata nella stazione, il cui brusio si stende tutt’intorno come “un funebre drappo”, è come una veduta dal patibolo. Lo scrittore inglese vuole ovviamente sottolineare il fatto che i facoltosi borghesi del suo romanzo sono una classe sociale in via di dissoluzione, e la torre d’avorio in cui si rifugiano, assediati da una simbolica nebbia che tutto oscura e tutto paralizza, è una metafora fin troppo facile, ma nondimeno estremamente efficace, per rappresentare questa situazione. Green non è comunque un Bunuel, non intende “épater le bourgeois”, e “Partenza in gruppo”, accanto alle sue sulfuree intuizioni, conserva la grazia di un elegante marivaudage, con le continue, frenetiche entrate e uscite di scena dei personaggi che sembrano preannunciare le commedie di Michael Frayn. A me questo romanzo ha ricordato per molti versi anche le opere di un autore come William Gaddis, con la prevalenza di brillanti dialoghi che solo di rado vengono interrotti da scene descrittive e il progressivo precipitare degli eventi che conduce a esiti grotteschi. Certo, non si assiste qui, come invece in Gaddis, all’inesorabile trionfo dell’entropia ma, nonostante l’happy end (la situazione alla fine si sblocca e i treni possono ripartire), rimane forte nel lettore il retrogusto di una impietosa critica sociale e il senso ineluttabile della condanna di una classe rinchiusa nel proprio narcisistico isolamento, soffocata dalla propria albagia e condannata a vivere nella paura di venire estromessa dai propri privilegi.