Nelle tempeste d'acciaio
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Nato per uccidere
Giorgio zampa conclude la sua prefazione a Nelle tempeste d’acciaio con questa frase:” Le tempeste figurano come un masso erratico nella distesa sterminata della letteratura europea.”. E in effetti questo libro ha la grevità di un macigno, uno dei suoi non pochi difetti di cui parlerò più approfonditamente in seguito, poiché ora reputo necessario in via preliminare delineare la figura dell’autore, Ernst Jünger, un tedesco nato a Heidelberg il 29 marzo 1895 e morto a Riedingen il 17 febbraio 1998, cioè a 102 anni compiuti. Cresciuto in una famiglia di agiata borghesia, si arruolò come volontario allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in cui fu ferito 14 volte, ebbe promozioni (l’ultima fu quella a tenente comandante di compagnia) e ottenne la croce di ferro di prima classe, nonché l’ambitissimo e raro ordine Pour le Mèrite. Conclusosi il conflitto, ebbe l’’dea di mettere nero su bianco il suo diario di trincea che venne pubblicato a spese del padre, ottenendo subito uno straordinario successo. Chiaramente nazionalista e di destra non aderì mai tuttavia al partito nazista, ma non mancò di pubblicare un suo scritto contro gli ebrei.
Nel corso della seconda guerra mondiale fu ufficiale della Wermacht a Parigi, senza tuttavia farsi notare. A conflitto concluso fu accusato di connivenza con il nazismo, ma come molti altri se la cavò a buon mercato. Continuò l’attività di scrittore, a cui si aggiunse la passione per la filosofia con un’analisi critica della modernità che gli valse, nel 1980, il prestigioso Premio Goethe. Stravagante e sempre portato agli eccessi sperimentò diversi tipi di droghe, dalla cocaina al famigerato LSD, il che però non gli arrecò danni, vista la veneranda età che raggiunse, a dispetto anche del fatto di essere stato sui campi di battaglia di due guerre, il che porta a concludere che si è trattato del classico uomo nato con la camicia.
Ma veniamo ora a Nelle tempeste d’acciaio, trasformato da diario di trincea a romanzo autobiografico, 329 pagine esclusivamente di guerra, con descrizioni minuziose delle azioni condotte dall’autore, in cui la morte ha solo una valenza numerica (tot morti loro, tot morti noi), senza che ci sia il benché minimo senso di pietà. È presente la paura, ma più che la paura di morire, il timore così di non riuscire, di non poter continuare a uccidere. Forse come ufficiale sarà stato considerato un esempio per i soldati, ma come uomo rivela una mancanza di sensibilità che non può che urtare la suscettibilità di un lettore non guerrafondaio. C’è uno straordinario compiacimento nel descrivere la battaglia, una morbosità nel parlare delle morti (la testa spiccata dal corpo, oppure il cervello che esce dalla scatola cranico, con il ferito ancora vivo e cosciente) che lascia stupefatti. Junger non era un essere umano, era un automa programmato per ammazzare e stento anche a credere alla gioia dei suoi soldati prima di un attacco, come fossero tornati bambini quando giocavano alla guerra.
C’è una differenza abissale con il romanzo di un altro tedesco, Erich Maria Remarque, che in Niente di nuovo sul fronte occidentale ci offre una misura umana degli orrori di un conflitto, ci lascia un messaggio di ferma condanna di ogni guerra; inoltre la stessa stridente discrasia possiamo trovarla in un altro capolavoro, questa volta non di un tedesco, bensì di un italiano, cioè Il sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern.
In entrambi questi due libri, che dovrebbero costituire materia di studio a scuola, lì ci sono gli uomini che combattono, loro malgrado, per sopravvivere, poveri esseri trascinati in una tragedia che li segnerà per tutta la vita. .
Junger non è in verità che inneggi alla guerra, ma nemmeno la condanna e oserei dire che per lui è un fatto privato, la possibilità finalmente offertagli di esaudire quel desiderio che si porta appresso dalla nascita e che è quello dell’inebriante voluttà di essere libero di uccidere. La sua è una lotta continua in cui l’effettivo nemico non è il soldato inglese, oppure quello francese, bensì sé stesso, pronto a misurarsi continuamente e con gioia con la morte, una tenzone che lo inebria con il sottile piacere del rischio e di tutto ciò che è estremo. .
Poiché le 329 pagine sono fitte di azioni belliche, con descrizioni di bombardamenti e delle più orribili morti, senza lasciare il minimo spazio a una qualsiasi riflessione che possa rivelare un sentimento nascosto, risultano di una pesantezza incredibile, tanto che viene naturale dopo un po’ o troncare per sempre la lettura o proseguire il più alla svelta possibile per giungere al termine.
Certo che chi ama i romanzi che parlano solo della guerra come azioni belliche qui avrà modo di essere soddisfatto, ma questo libro così anomalo per me è un classico esempio di cattiva letteratura, peraltro diseducativa.
Non pochi lettori considerano questo romanzo un capolavoro, ma io intendo tenermi fuori dal coro, perché nel giudicare un’opera non ci si può basare solo sullo stile e sulla trama, ma anche sui contenuti e i fini; ora Nelle tempeste d’acciaio non è certo scritto male, riesce forse anche ad avvincere, ma il messaggio che porta è deleterio, perché una bestialità come la guerra non può essere esaltata e quindi il mio giudizio non può essere che negativo; se non fosse così, se non dovessi osservare anche la finalità dell’opera, l’insegnamento che essa comporta, per paradosso dovrei considerare un gran libro anche il Mein Kampf, di Adolfo Hitler.
Leggerlo è tuttavia sempre possibile, almeno per vedere quanto ci sia di folle in un uomo nato per uccidere.