Longbourn House
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Potrebbe piovere...
"Longbourn House" si presenta come un romanzo storico, mascherando così la sua effettiva natura di romance, che a tratti sfocia nel puro Harmony (abbiamo pure l’immancabile protagonista maschile con le cicatrici sulla schiena... TOP!). Non c’è nulla di sbagliato in un romanzo rosa, ma per correttezza il lettore non andrebbe ingannato, soprattutto se la storia d’amore presentata è tanto sconclusionata quanto inquietante. A riprova di ciò, voglio iniziare questa recensione in modo diverso dal solito, ossia con una citazione tratta dal testo:
«Invece, a sua insaputa, c’era anche James. L’aveva seguita di nascosto,senza farsi scorgere, come era diventato esperto a fare.»
Non vi sembrano le premesse ideali per un thriller in cui l’assassino stalkera in modo a dir poco angosciante la sua prossima vittima? Be' vi sbagliate! perché il serial killer mancato James e la sua potenziale vittima (aka la cameriera Sarah) sono la felice coppia per la quale dovremmo fare il tifo in questo libro.
Ma mettiamo da parte (pur tenendo bene a mente) questa premessa e passiamo alla trama del romanzo.
Innanzitutto questa storia non è completamente originale dal momento che basa gran parte degli avvenimenti e dei personaggi secondari sul classico austeniano "Orgoglio e pregiudizio". Il romanzo si impone infatti di raccontare le vicende della servitù della famiglia Bennet dall’arrivo di Bingley a Netherfield fino a qualche tempo dopo il matrimonio di Elizabeth e Darcy. In particolare, il focus è incentrato sulla governante Mrs Hill e i già menzionati Sarah e James (il nuovo valletto), ma anche la seconda cameriera Mary "Polly" e il maggiordomo Mr Hill hanno un ruolo di rilievo nella storia.
Parlando di trama, le mie critiche su questo titolo possono cominciare già da qui. La storia principale è infatti divisa a metà da una parte molto consistente sul passato di uno dei personaggi, che non si amalgama per nulla con il resto della narrazione, un po' come succedeva in "The Invasion of the Tearling" di Erika Johansen e "In territorio nemico" di Scrittura Industriale Collettiva; vorrei precisare che, in tutti e tre i casi, la storia secondaria non è mal scritta di per sé, soltanto stona inserita in quella principale.
Il ritmo narrativo viene inoltre spezzato di frequente da descrizioni prolisse e dettagli spesso inutili. Questi troncano la storia nei momenti in cui dovrebbe esserci più tensione: ad esempio, quando i Bennet vengono informati della fuga di Lydia, l'autrice blocca la scena e spende diverse righe per raccontare di come Mrs Hill paghi il corriere e dei pericoli in cui questi potrebbe incorrere sulla strada di notte. Sarebbe anche interessante, se non fosse in corso una vera emergenza!
Passando ai personaggi, penso che quanto scritto all'inizio su Sarah e James sia sufficiente, anche se devo segnalare come lei sia una totale apatica -sempre pronta a lamentarsi della sua situazione, ma incapace di prendere un’iniziativa sensata. Come non bastasse, gli ostacoli all’amore tra i due sono davvero ridicoli: le minacce di Wickham vengono rese vane dallo stesso epilogo e il triangolo amoroso risulta inutile tanto quanto il personaggio che ne diventa il terzo lato.
Riguardo Mrs Hill rimangono ancora parecchie domande irrisolte: perché non ha mai lasciato la famiglia Bennet, date le tante sofferenze patite? perché non dice nulla a Sarah, per poi spiattellare tutto dopo la fuga di James? perché odia da subito Ptolemy? E non si tiri in ballo la questione razziale,
«E se Sarah ricambiava l’interresse - sempre che si fosse riusciti a impedire al mulatto di farle perdere completamente la testa - [...].»
perché tutti gli altri personaggi lo trattano senza il minimo pregiudizio e anche lei poi cambia idea senza alcun motivo. Poteva essere il personaggio migliore della storia, e probabilmente lo è visto il livello degli altri, ma non basta di certo.
Quelli che più mi hanno lasciata perplessa sono però i personaggi della Austen, qui in qualità di comparse, che in molti casi vengono completamente snaturati. Jane è scostante, Lizzie e Darcy diventano degli astiosi egoisti, Wickham addirittura un pedofilo, mentre il bonario Mr Bennet è quasi l'antagonista della situazione. Visto il suo ruolo, non posso credere che tenga un comportamento del genere con Mrs Hill;
«Se adesso avesse fatto un'altra obiezione, lui se la sarebbe segnata - teneva segretamente conto di tutto - e gliel'avrebbe fatta pagare alla prima occasione buona.»
con questo non voglio dire che questi personaggi non debbano avere difetti, ma se si scrive una storia ispirandosi ad un'altra opera bisognerebbe esserle il più possibile fedeli.
Di fondo l'idea del romanzo non è da buttare (altrimenti non l'avrei comprato!), perché siamo abituati a storie che seguono personaggi con una posizione elevata e ci dimentichiamo di chi deve lavorare ai piani bassi, e spesso essere svilito dai suoi datori di lavoro,
«-È solo perché lei [Mary Bennet] è la signorina e io non che lei si può far chiamare May e io sono dovuta diventare Polly, anche se il mio nome di battesimo è Mary come il suo.»
È sicuramente positiva anche la concezione della servitù di Longbourn come un nucleo familiare a se stante e composto da persone che forse non si sono scelte come famiglia in un primo momento ma hanno imparato pian piano a vedersi come tale.
«[Sarah] Lesse piano -per non disturbare la bambina che dormiva o il vecchio assopito - di come ci fossero nuove speranze di rapida vittoria in Spagna, [...].»
Lo stile della Baker è il vero tallone d'Achille del romanzo. Ho trovato fastidiosa la sua abitudine di interrompere le frasi principali con delle lunghe subordinate incluse nei trattini, come pure l'alternare diversi punti di vista all'interno dello stesso paragrafo e le molte ripetizioni ridondati di aggettivi e concetti.
Sono presenti anche dei dialoghi innaturali, che lasciano basiti. Vi porto in esempio queste due frasi consecutive:
«-Dovete riguardarvi, bambolina. Nessun altro lo farà per voi.
[...]
-Che posto è, questo in cui tutti si chiamano Bingley?»
Come può la seconda essere una valida risposta alla prima? Sembra che l'autrice abbia dimenticato la parte centrale del dialogo.
E che dire delle molte metafore ardite, che il più delle volte lasciano perplesso il lettore. Perché, siate onesti e, dopo aver letto questa frase:
«[...] scivolava giù del letto mentre Polly dormiva e, come una stella di mare, attraversava furtivamente il cortile, infreddolita e ai piedi nudi, [...].»
ditemi che non sono l'unica a non aver mai visto una stella di mare infreddolita e a piedi nudi!
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- sì
- no
al servizio delle sorelle Bennet
Ho letto questo libro incuriosita dall'ambientazione in casa della famiglia Bennet, la storia racconta infatti dei domestici che servivano in casa dei protagonisti di Orgoglio e Pregiudizio. Devo dire che la scrittrice è stata brava nel non snaturare e non interferire con la storia originale, potrebbero essere benissimo due storie che convivono e viaggiano in parallelo.
La trama quindi sfrutta l'ambientazione del capolavoro di Jane Austen ma si sviluppa su un filone proprio: troviamo Mr Hill e Mrs Hill i due domestici anziani, Sarah la serva e la piccola Polly, una sguattera. Pur non essendo una vera e propria famiglia di sangue (Sarah e Polly sono infatti due orfane), è come se lo fossero di fatto. Viene raccontato in modo realistico quelle che erano le faccende e gli impegni quotidiani dei domestici al servizio di una famiglia nell'Inghilterra Settecentesca, si tratta di uno spaccato che non troviamo nei libri della Austen ma che ci dà un'ottima visione di quella che era invece la vita della servitù.
Seguiamo quindi i tormenti di Mrs Hill, la voglia di libertà di Sarah e l'arrivo di un nuovo valletto, tale John Smith, che porterà non poco scompiglio nella vita di tutti: il suo destino è infatti molto più intrecciato di quello che sembra con le dinamiche della famiglia Bennet. Ho apprezzato molto questo sguardo sulla dura vita degli ultimi nella scala sociale, tuttavia questo libro non mi ha entusiasmato: molto lento, molto descrittivo, con una narrazione che un po' si perde nel raccontare la quotidianità a svantaggio delle emozioni.
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Per vincere facile si finisce per perdere
Nella galleria di romanzi di ispirazione austeniana si colloca Longbourn House. L’idea in questo caso è di dare voce e vita al mondo della servitù di casa Bennett: la cameriera, la governante e il valletto diventano così protagonisti della scena con le proprie attività quotidiane, difficoltà, sentimenti.
Sono molti i romanzi che nel tempo hanno preso in prestito nelle proprie storie i personaggi di Orgoglio e Pregiudizio con risultati in genere molto deludenti non solo per le situazioni proposte, talvolta al limite del ridicolo, ma anche perché il presentare i personaggi fuori dalla loro realtà letteraria porta a snaturarli, trasformarli, renderli irriconoscibili. Bisogna invece dare atto a Jo Baker che, pur avendo fatto muovere i suoi servitori non in una qualunque casa inglese di fine Settecento ma proprio in quella della famiglia Bennett, tuttavia non ha tradito il contesto e i personaggi originali.
Longbourn House ha una sua valenza e una sua trama che va oltre Orgoglio e Pregiudizio ma ne sfrutta furbescamente l’ambientazione, impreziosendo lo sfondo della propria storia con rimandi a vicende e personaggi così noti e cari al lettore. Mossa furba ma anche pericolosa perché porta inevitabilmente a un confronto con l’originale, evidenziando limiti e debolezze del romanzo della Baker. Se è vero che anche in Orgoglio e Pregiudizio la trama non risulta particolarmente originale o avvincente, lì è la qualità della narrazione, dell’ambientazione e della caratterizzazione dei personaggi a fare la differenza. In Longbourn House, invece, la semplicità della storia d’amore tra cameriera e valletto si accompagna a un ritmo narrativo piuttosto pesante, con lunghe descrizioni e digressioni sul passato che dimostrano sì una certa documentazione storica da parte dell’autrice ma che ne inficiano la piacevolezza. I personaggi sono inoltre piuttosto deboli, a tratti anacronisticamente moderni per alcune scelte di vita, ispirate da un presunto tumulto interiore e una speranza di riscatto non meglio identificati e approfonditi. E poi manca il brio dell’ironia, purtroppo.
Il giudizio sarebbe cambiato senza il pesante paragone? In parte forse sì. In fondo è un romanzo fine, di belle maniere e buoni sentimenti, che offre uno sguardo onesto su chi ha come unica prospettiva una vita sfiancante di lavoro durissimo fatta di panni da lavare, piatti da servire e mani rovinate dal gelo e dalla fatica, una vita malinconica in cui non ci si possono permettere comodità e desideri, una vita invisibile che fa della discrezione e dell’assenza di sogni il proprio tratto distintivo. Interessanti quindi gli spunti di riflessione sul tessuto sociale dell’epoca, soprattutto a confronto con la nostra egocentrica e individualistica attualità.
Una lettura nel complesso gradevole che forse ha tratto più svantaggi che vantaggi dall’avere citato Jane Austen.