La strada stretta verso il profondo Nord
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Top 10 opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
La ferrovia della morte
Questo romanzo colpisce come testimonianza storica al pari dei libri di Primo Levi, di Remarque, e di romanzi come Yellow birds. Apre uno scorcio su un capitolo della seconda guerra non molto noto e cioè sulle sofferenze e la durissima prigionia dei prigionieri australiani vittime non della crudeltà giapponese ma dell’utopia e del nazionalismo giapponese: dell’ambizione di poter fare in nome dell’imperatore ciò che per americani e europei era un’impresa impossibile: costruire in pochissimi mesi una ferrovia che collegasse Siam e Birmania in modo da rendere fattibile l’invasione dell’India dalla Birmania.
Ma se il progetto è grandioso non viene speso nulla per favorire il progetto: l’amore per l’imperatore deve rendere possibile di per sé il miracolo. Per amore dell’Imperatore si può lavorare senza mangiare e bere, il corpo non si ammala, si può scendere dal letto di morte per lavorare, le malattie guariscono da sole, non esiste la stanchezza. E, viceversa, se uno si ammala, ha fame, sete e non riesce a alzare un martello per lo sfinimento merita di essere picchiato perché tutto questo è una mancanza d’amore per l’imperatore.
E’ una mentalità lontana anni luce dalla nostra e in un certo senso benché folle e farneticante quasi idealista. Il nazionalismo giapponese è così fanatico da non riuscire nemmeno a essere calcolatore, a pensare che se un prigioniero si riprende potrà lavorare e rendere di più. I carcerieri pretendono dai prigionieri l’impossibile: che si perdano nel culto dell’imperatore fino a diventare puro spirito perché chi è spinto dal desiderio di compiacere l’imperatore non si ammala, non sente la fame e la sete.
I prigionieri australiani dunque devono lavorare in turni massacranti nella giungla, senza medicine, acqua potabile, cibo, affetti da tutte le avitaminosi (pellagra, scorbuto, beri beri), infestati dai parassiti, dalla tigna, sterminati dalla dengue e dal colera, colpiti da ulcere che vanno in cancrena. Le pagine in cui viene descritta l’impresa sono belle, intense, vere perché il padre dell’autore è stato uno dei prigionieri (dei pochi) che sono sopravvissuti. Sembra di sentire urlare le scimmie nella giungla, di sentire addosso l’acqua del monsone.
Restano impressi i gesti di solidarietà tra prigionieri: qualcuno è capace di dare mezza polpetta di riso all’amico moribondo anche se la razione di cibo quotidiana è meno di un decimo del fabbisogno giornaliero e anche se con tutta probabilità il moribondo non verrà salvato dalla morte. La bellezza del gesto sta nella sua inutilità che lo rende qualcosa di eterno, non solo di utile o di necessario. Un segno di umanità in tanta barbarie.
I capitoli sono a volte preceduti dalle poesie spiazzanti del poeta Basho o Issa. Strane, stranissime.
“Un’ape esce
barcollando
dalla peonia”
La stranezza delle poesie rende la distanza in anni luce tra le civiltà e le mentalità e suggerisce l’impossibilità di giudicare e forse condannare perché usiamo bilance culturali terribilmente diverse.
Mentre i giapponesi aspirano a dare la vita per l’imperatore, gli australiani si inventano espedienti incredibili per strappare quanti più possibile alla morte.
Alcuni episodi colpiscono profondamente come l’operazione con la sega, il cucchiaio e la cintura dei pantaloni. Leggendo quelle pagine quasi non si capisce nemmeno il desiderio di sopravvivere a ogni costo. Sembrerebbe più semplice chiudere gli occhi e morire. Anche perché le storie del dopo, la vita dei sopravvissuti dopo, appena accennata spiega la difficoltà enorme, l’impossibilità di sopravvivere e tornare alla normalità dopo un’esperienza del genere.
Bellissimo il capitoletto con la cena a base di pesce nella friggitoria del greco. E’ così bello, intenso, felice che forse avrebbe dovuto chiudere il romanzo senza aggiungere altre parole perché c’è quel pizzico di sogno e di speranza che ci vuole. Di più sarebbe troppo.
La storia del matrimonio di Dorrigo con Ella e la sua relazione con Ami secondo me appesantiscono molto il romanzo. Io credo che un taglio di pagine sarebbe stato utile al romanzo che è comunque bellissimo e soprattutto costituisce una testimonianza. Mi è piaciuto anche il fatto che l’autore cerchi in qualche modo di capire le ragioni dei nemici e in un certo senso li giustifichi almeno in parte.
“Sapeva che niente di quello che pensava poteva costituire un argomento di difesa, che niente di quello che provava poteva avere un senso per gli australiani,per i loro avvocati con gli occhi a scalpello e i giudici che parevano candele gocciolanti. Perché una guardia viveva come un animale, si comportava come un animale, capiva quello che capiva un animale e pensava come un animale. E si rendeva conto che quella era l’unica forma umana che gli fosse stata concessa. Non si vergognava di aver scoperto che la sua umanità era quella di un animale, lo lasciava solo perplesso vedere dove questo l’avesse portato. Quando gli dissero che era stato condannato a morte per impiccagione, prese la notizia come un animale: senza capire, ma con una vaga coscienza che era stato libero e che adesso la sua fine era arrivata.”
Certo, è molto severo il suo giudizio sugli americani che a un certo punto condannano i pesci piccoli, gente che non ha avuto davvero scelta come il povero coreano Goanna, mentre lasciano perdere i maggiori responsabili, gli ufficiali giapponesi.
L’autore descrive anche le dissezioni, cioè espianti di organi a prigionieri americani vivi e coscienti a scopo di studio: vere e proprie torture. Questo per far capire che il calo di attenzione per i crimini contro l’umanità non è dipeso dalla nazionalità delle vittime. Gli americani vogliono fare affari con i giapponesi e in nome di tali affari chiudono tutti e due gli occhi.
Di fronte alla storia d’amore del prigioniero che scampa anche all’atomica per tornare dalla sua Maisie che nel frattempo ha sposato un altro o a tutte quelle storie appena abbozzate ma vere e intense la storia d’amore di Dorrigo, l’ufficiale medico del campo diventa retorica, a volte troppo letteraria con tutte quelle citazioni . Ma soprattutto viene spostato il baricentro del romanzo e questo anche se lo rende più commerciale lo impoverisce. Le pagine su Dorrigo sono troppe. Io avrei chiuso con la cena in pescheria: bella, bella, bella.
Quella cena dava un tocco leggero ma di solidarietà e mi dispiace che si è persa nel mezzo di tante altre pagine.