La guerra della fine del mondo
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LA GUERRA SANTA DI ANTONIO IL CONSIGLIERE
Vargas Llosa è uno dei più abili e sapienti orchestratori di storie della letteratura mondiale di ogni tempo. Nel suo romanzo più classico, quella "Guerra della fine del mondo" che possiede tutti i connotati della saga epica, lo scrittore peruviano sa gestire al meglio i ritmi del racconto corale, tenendo i fili di tanti personaggi e di tante storie che si intrecciano all’interno della trama principale (ad esempio, quelle del rivoluzionario Gall, della guida Rufino, di sua moglie Jurema, del giornalista miope, del nano del circo del Gitano, del barone di Canabrava, e soprattutto di tutti i personaggi che attorniano Antonio il Consigliere, il quale – pur essendo il motore della vicenda – rimane paradossalmente quasi sullo sfondo), con una narrazione vertiginosamente policentrica eppure precisa come un raffinatissimo meccanismo ad orologeria, geniale nel fare confluire tutto l’enorme materiale verso il redde rationem della battaglia finale, con un effetto suspense che è vieppiù amplificato dal misurato ricorso ai piccoli sfasamenti temporali che, sia pure in misura minore che in altre sue opere, Vargas Llosa utilizza di quando in quando. Si prenda ad esempio, la quarta parte in cui il barone di Canabrava e il giornalista miope discorrono della avvenuta distruzione di Canudos (*), anticipando al lettore ciò che egli leggerà nelle pagine successive: ebbene, pur svelando l’inevitabile conclusione, questo flashforward non toglie nulla alla spasmodica tensione che si è accumulata pagina dopo pagina, quasi che, a dispetto di ogni logica e di ogni verosimiglianza, si continuasse a sperare in un diverso andamento delle cose. Anche l’uso della terza persona e di uno stile distaccato, neutro ed imparziale non va a detrimento del pathos, perché se da una parte il punto di vista obiettivo si adatta perfettamente alla narrazione di un avvenimento che – è opportuno ricordarlo – è davvero accaduto più di cento anni fa e fa parte della storia del Brasile nella fase del suo passaggio dalla monarchia alla repubblica, dall’altra il ricorso a tanti personaggi (sia rivoltosi di Canudos sia “patrioti” dell’esercito regolare) accresce la sensazione di trovarsi proprio al centro del nucleo incandescente della vicenda.
Anche se la prosa di Vargas Llosa ci fa parteggiare senza tentennamenti per la bizzarra comunità messa in piedi dal Consigliere, una vera e propria corte dei miracoli composta da derelitti, poveracci ed ex banditi (all’interno della quale si stagliano potenti e indimenticabili figure come quelle di Joao Abade, Joao Grande, Pajeu, Antonio Vilanova, il Beatino, il Leone di Natuba e Maria Quadrado), essa non nasconde i tratti più paradossali ed anacronistici della rivolta di Canudos, il suo carattere regressivo e conservatore, anziché rivoluzionario e modernista: il Consigliere e i suoi accoliti sono dei fanatici, la cui fede, per quanto autentica, sfiora la superstizione, e i cui condivisibili ideali di evangelica fratellanza si mescolano ad altri incongrui slogan, quali il rifiuto del censimento, del matrimonio civile e del sistema metrico-decimale. Di questo si rende conto l’anarchico e rivoluzionario irlandese Galileo Gall (il quale è un po’, con il giornalista miope, la coscienza critica del romanzo) nelle sue riflessioni ideologiche sulla natura al contempo eversiva e restauratrice di Canudos, cosa che non gli impedisce però di schierarsi, pur profondamente ateo come si sente, con questa originale esperienza di lotta anti-capitalistica. Il cuore di Vargas Llosa di certo non batte per i politici dello stato di Bahia, i quali non esitano a strumentalizzare quello che resta pur sempre un episodio sociale circoscritto pur di ricavare biecamente e opportunisticamente qualche guadagno in termini di potere. Il candidato dei repubblicani, Epaminondas Gonçalves, arriva addirittura ad ordire un finto complotto per poter accusare il partito rivale capeggiato dal barone di Canabrava di connivenza col nemico, e questo a sua volta cerca di riguadagnare il favore del governo centrale e dell’esercito simulando un finto entusiasmo di fronte all’operazione militare destinata a stroncare la rivolta e riportare la pace nel sertao. Lo stesso Galileo Gall, che si trova sballottato tra il fantomatico complotto di Epaminondas Gonçalves e una prosaica e un po’ ridicola storia di onore e di corna, non arriverà mai a vedere l’agognata Canudos, vittima, più che di macchinazioni politiche, di una natura e di un mondo arcaico e primitivo, in cui gli istinti emergono violenti e prepotenti ad annullare ogni differenza ideologica e di classe. Questo mondo del sertao, inospitale ed ostile eppure percorso da un incomprimibile flusso di vitalità, percorso da predicatori e banditi, da reprobi e mendicanti, è in fondo il vero protagonista del romanzo. Antonio il Consigliere, che rischia di apparire un personaggio grottesco e fuori del tempo, è in fondo l’espressione più profonda di questo universo, in cui il messianesimo d’impronta millenarista mescola l’intransigenza e la spietatezza con la profonda umanità riversata su tutti gli afflitti, i disperati e gli scherzi di natura, i quali per la prima volta sono in grado di sentirsi esseri umani alla stregua di chiunque altro e per questo sono disposti a condividere le sue drammatiche sorti fino alla morte. Se il Consigliere è un po’ il simbolo maschile del sertao, quello femminile risulta essere un po’ a sorpresa quello di Jurema, la donna silenziosa, modesta e tenace, di cui nessuno si accorge ma capace con la sua inconsapevole sensualità di sconvolgere le esistenze degli uomini che incontra: forestieri come Galileo Gall, intellettuali come il giornalista miope, aristocratici come il barone di Canabrava o jagunço come Pajeu sono tutti misteriosamente attratti da lei, pronti a dannarsi e a morire per il suo incomprensibile fascino. E’ proprio questo magmatico trionfo della natura, degli istinti e dei sensi che fa allontanare "La guerra della fine del mondo" dalle sue peculiarità di romanzo storico, per donargli invece quelle ineffabili suggestioni magiche e fantastiche che ne fanno un libro di pagina in pagina sempre più singolare, emozionante e sorprendente.
(*) Nel dialogo tra il barone e il giornalista si fronteggiano anche due differenti reazioni alla tragedia di Canudos, quella di dimenticare a tutti i costi l’evento luttuoso, configurandolo come un’anomalia irripetibile (lo stesso potrebbe valere per tanti altri avvenimenti storici più vicini a noi, come l’Olocausto), e quella opposta di testimoniare ai posteri ciò che è accaduto, anche se sgradevole o inopportuno. In questa seconda posizione Vargas Llosa intende collocare il ruolo dello scrittore impegnato, il cui compito consiste spesso nel tirare coraggiosamente fuori dall’oblio vicende esemplari che altrimenti verrebbero cancellate per sempre dalla memoria collettiva. E’ per questo che quello del giornalista miope è l’unico personaggio del romanzo che fa oscillare l’imperturbabile neutralità dell’autore a favore di una sorta di appassionata rivendicazione ideologica.
Indicazioni utili
E' ACCADUTO DAVVERO...
...è accaduto nel sertao brasiliano, in una terra brulla e aspra, tra latifondi dai confini invisibili. Migliaia e miglialia di contadini, divisi dalle distanze e uniti nella miseria, incontrano un uomo e lo seguono. Costruiranno insieme la città di Canudos che diverrà luogo, tomba e simbolo. Come ribellione sociale verrà vista dal governo brasiliano e come tale diventerà guerra. Lui, l'uomo, vede nella Repubblica e quindi nella scissione tra Chiesa e Stato "la fine del mondo". Questo profeta non cerca la guerra, non cerca la distruzione, cerca di creare un luogo dove la Repubblica non possa entrare.
E' un romanzo pazzesco, splendido, intenso, indimenticabile.
Personaggi spesso grotteschi, sorprendenti, estremamente umani. Vengono rappresentate tutte le facce della miseria e ancora meglio tutte le facce della speranza. La speranza è il filo di tutto ciò che realmente a Canudos accadde.
Meraviglioso.