L'ussaro sul tetto
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Miseria e nobiltà
Romanzo d'avventura ambientato nel sud di una Francia ottocentesca devastata dal colera. Ne è protagonista Angelo Pardi, giovane ufficiale degli Ussari in fuga dal Piemonte per attività eversiva. Già perché Angelo è un rivoluzionario, intriso di ideali risorgimentali e nobili ideali cavallereschi. Nelle sue pellegrinazioni fra le città ed i villaggi provenzali incontra una donna, Pauline de Theus, marchesa e compagna del protagonista per una buona metà del racconto, incontrata in una delle fasi del romanzo in cui il protagonista è costretto a rifugiarsi sui tetti di Manosque per fuggire alle ire degli abitanti che lo scambiano per untore e coleroso. La loro relazione rimane sì platonica ma comunque raggiunge un livelli di intimità e confidenza importanti. Di fronte a loro il colera, il volto oscuro ed onnipresente del racconto, volutamente reso grottesco ed amplificato nei suoi effetti sulla popolazione dal narratore (storicamente fu molto meno devastante di come viene raccontato) proprio per significarne il valore simbolico. Si ammalano di colera tutti coloro che ne hanno paura e che vivono nell'egoismo e nel cinismo. E' dunque il simbolo di una società moralmente malata, a cui si contrappongono Pauline e Angelo, che ne rimangono o indenni (Angelo) e ne guariscono (Pauline) proprio perché i loro sentimenti e ideali sono puri ed incontaminati.
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Tosto ma bello
Siamo in Provenza nel 1831, un giovane ufficiale degli ussari fuggito dall'Italia dopo aver ucciso una spia, attraversa una Francia sconvolta da una terribile epidemia di colera.
Del giovane protagonista , Angelo Pardi, descritto come una specie di cavaliere senza macchia e senza paura , conosciamo l'identità e gli scopi del viaggio solo dopo la metà del libro.
Giono descrive il colera e i suoi effetti in modo molto vivido, perfino esagerando su certi decorsi della malattia, ma anche relativamente all'intensità dell'epidemia e all'intrecciarsi di questa con le vicende storiche , in parte vere ed ispirate autobiograficamente alla vita del nonno.
Angelo arriva in una piccola cittadina dove l'ignoranza popolare sobillata da qualcuno lo trasforma in un untore di Manzoniana memoria facendogli rischiare la vita, scampato ad una esecuzione sommaria grazie all'aiuto di pochi uomini ancora in possesso di buon senso, si rifugia sui tetti della cittadina e li vive alcuni giorni, osservando la follia dilagare sotto di lui: gente che abbandona i propri cari buttandoli in strada come suppellettili rotte per paura di essere sottoposti a quarantena, i lugubri carri che raccolgono i morti e altre situazioni al limite, viste dal suo rifugio fatto di silenzio e solitudine.
Durante le sue scorribande in questo mondo particolare che sono i tetti incontra una giovane donna che condivide con lui quel poco che ha da mangiare e sembra ancora padrona di se nonostante la situazione difficile.
Angelo si sposta dai tetti e riprende il cammino , sempre sostenuto da una buona dose di prudenza ma spinto anche da un animo generoso che non viene mai intaccato nei suoi valori di umana pietà
nemmeno di fronte al pericolo di essere contagiato, si adopererà a soccorrere i moribondi e per aiutare persone in difficoltà uscendo da qualche brutta situazione grazie ad una certa scaltrezza .
Dopo aver reincontrato un caro amico e , ricevuto da lui il denaro per sovvenzionare l'insurrezione in Italia, riprende il cammino versoil suo paese e trova di nuovo sulla sua strada la giovane donna
incontrata in Provenza: Pauline. Da allora sarà il suo cavaliere, la proteggerà da ogni insidia deviando il suo percorso per condurla verso casa dove lei spera di raggiungere il marito di cui non
ha più notizie.
In un mondo in cui gli uomini sembrano aver perso i valori che li distinguono dalle bestie, Angelo e Pauline rimangono fedeli ai loro principi di lealtà, umanità, onore e rispetto.
Quasi a voler distinguere i protagonisti dai personaggi di contorno, ho notato come questi ultimi tendano tutti a scomparire improvvisamente e repentinamente dal racconto non necessariamente
perchè trapassati, semplicemente Giono se ne sbarazza non appena non sono più funzionali alla storia, sono solo comparse.
Che dire: viene considerato uno dei capolavori letterari del '900, un romanzo storico-cavalleresco in cui la grandezza non sta nella trama affascinante (non lo è) ma in come è scritto.
Le descrizioni della natura sofferente quanto l'uomo , dei paesaggi e alcune considerazioni dei protagonisti sulla morale, gli ideali della patria, sull'evolversi della società dell'epoca, sono molto belle ma è un libro che va letto con calma gustando ogni passaggio.
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L’ussaro sul tetto
Angelo Pardi è un miracolato. A cavallo o a piedi, alla luce del sole o sfuggendo le insidie, attraversa cinque mesi e quasi cinquecento pagine di colera accusando al più un principio di mal di pancia (sconfitto con due bottiglie di borgogna): eppure non si tira indietro, anzi si danna a soccorrere moribondi e lavare morti senza neppure badare a evitare il contatto con i fluidi corporei. Bisogna dire che, nella prima metà del romanzo, il vero protagonista non è lui, bensì la malattia che fa strage in una Provenza strozzata da una calura implacabile: un’afa innaturale che fa squadra con le innumerevoli descrizioni di morti colerosi e di uccelli più feroci di quelli di Hitchcock, il tutto a testimonianza della scelta iperrealista dell’autore. In sintonia con il clima, il ritmo è lentissimo e Angelo è quasi solo testimone sullo sfondo di un’immobilità assoluta. La ripetizione immerge il sud della Francia in una sorta di bolla o di incantesimo, ma non sempre la misura è quella giusta e la lettura si fa irritante, tra corpi blu, riso nel latte, cieli di gesso e foglie rigide: fastidio che però viene dimenticato grazie alle pagine migliori, come quelle che raccontano la sopravvivenza di Angelo sui tetti e per la strade della natìa (per l’autore) Manosque. In questi capitoli non si conosce il nome del protagonista e si hanno solo pochi accenni sul suo passato: solo dopo il definitivo incontro con Pauline scopriamo chi è e che ci fa lì (è in fuga dai moti carbonari in Piemonte). E’ il momento in cui il racconto prende la forma del romanzo di avventura, con un apice nella fuga dalla quarantena di Vaumeilh, mentre il nostro accompagna la bella fuori dai territori del contagio. Cambia anche il clima – ci si inoltra nell’autunno tra piogge e freddo – ma, a differenza della peste manzoniana, il colera (in gran parte immaginario) di Giono non demorde e anche il passo del romanzo resta grave sullo sfondo di una natura quasi sempre matrigna, dove ai paesaggi calcinati dal sole si sostituiscono aspre colline tra le quali ci si può perdere per mancanza di punti di riferimento. La tendenza a calcare la mano rimane sempre – come nell’episodio dei contadini che hanno appena ucciso il maiale – mentre Angelo rivela sempre più un animo nobile, da vero erede dei cavalieri senza macchia e senza paura, che risalta nei confronti della pusillanimità borghese: motivo che ritorna spesso, sia nelle considerazioni del protagonista, sia nei dialoghi con i numerosi personaggi, fra i quali risultano migliori quelli provenienti dalle classi più umili. La gestione delle figure secondarie è, d’altra parte, a volte insoddisfacente, con abbandoni improvvisi non appena se ne esaurisce l’utilità: il dottore ebreo e l’ufficiale medico che compaiono all’inizio, la suora di Manosque, l’amico Giuseppe sono solo alcuni esempi mentre si prende anche troppo spazio l’altro dottore, il logorroico e solitario ospite sulla strada per Gap. Così, sia durante la lettura sia alla fine, resta una sensazione ambivalente, sospesa tra l’ammirazione per i moltissimi passaggi convolgenti in un libro di certo non banale, pur se costruito su di una storia lineare, e la pazienza che a volte scappa quando all’improvviso il motore dà l’impressione di girare a vuoto, non aiutato certo una tradizione ricca di termini desueti.