Il silenzio delle ragazze
Editore
Recensione della Redazione QLibri
La voce di Briseide
«Alle donne si addice il silenzio»
Se è vero che la storia viene raccontata e tramandata dai vincitori, è altrettanto vero che per molti secoli la letteratura ha avuto la voce quasi esclusiva dei maschi. Alle donne si richiedeva di essere sottomesse, di arrendersi placidamente alla propria sorte e soprattutto di essere silenziose. Mai soggetti narranti, al massimo oggetti vuoti ed esteriori di racconti con protagonisti gli uomini.
Pat Barker ha cercato, ai nostri giorni, di restituire invece una voce a quei soggetti della letteratura che nell'Antichità non l'hanno potuta avere: le donne appunto. Possiamo così leggere una riscrittura dell'Iliade fatta dal punto di vista di Briseide. Quante volte, leggendo questo classico dei classici, questa storia immortale che ha sconfitto il tempo per innumerevoli generazioni, ci siamo trovati al cospetto di questa ragazza! Una schiava, un premio di guerra del famoso eroe Achille. Quante volte ci siamo soffermati a riflettere su quello che poteva voler dire ciò? Essere una schiava, essere un premio di guerra. Pat Barker ci conduce in questo territorio inesplorato e ci fa rivivere la famosa guerra attraverso la voce atterrita e disincantata di Briseide.
«[...] A furia di ripensare al mio tentativo di fuga, mi ero convinta di aver voluto evadere non tanto dall'accampamento degli achei, quanto dalla storia di Achille; avevo tentato, e non ci ero riuscita. Perché questa, badate bene, era la sua storia: la sua ira, il suo dolore. Che io fossi in collera, che soffrissi anch'io, non importava. E invece eccomi di nuovo lì, ad aspettare il momento in cui lui avrebbe deciso che era ora di andare a dormire: ancora in trappola, ancora imprigionata dentro la sua storia, senza una parte autentica da poter definire mia.»
La narrazione si apre con l'assedio da parte degli achei della città di Lirnesso, alleata di Troia. Ben presto i guerrieri greci la espugnano e uccidono tutti i maschi. Briseide è la giovane moglie del re Minete e, insieme alle altre donne, viene fatta prigioniera e portata come trofeo di guerra nell'accampamento greco sulla spiaggia alle pendici della città di Troia. Sarà scelta come premio da Achille, sarà la sua schiava. Briseide è una sopravvissuta: ha visto morire, trucidata per mano di Achille, tutta la sua famiglia. La sua vita precedente non esiste più, non ha più uno status sociale, parenti, protezione. Ma ciò che è più difficile da sopportare è diventare la concubina dell'assassino dei suoi familiari, dello spietato uccisore dei suoi fratelli, di Achille. Briseide è una schiava, è costretta a servire, curare, assecondare i desideri sessuali dei propri nemici. Inizialmente è fiera ed orgogliosa, e prova repulsione verso altre donne che mostrano condiscendenza e attaccamento verso i greci. Eppure con il tempo ogni confine è destinato a sfumarsi, ogni netta separazione sembra sfaldarsi fra chi condivide la stessa condizione della guerra. É vero, la posizione dei guerrieri achei è ben diversa da quella delle schiave troiane, ma alla fine il destino di tutti è subordinato alla stessa logica violenta e disperata della guerra. Una sorte che accomuna tutti, uomini e donne, vincitori e sconfitti.
É in questo contesto che può prendere vita e diventare reale un sentimento affettuoso verso il proprio rapitore, o un gesto ospitale e rispettoso verso il più acerrimo nemico.
«Tuttavia è alle ragazze che penso più spesso. Arianna, che sul tetto della cittadella mi aveva teso la mano prima di gettarsi nel vuoto. Oppure Polissena, che solo qualche ora prima aveva detto: “Meglio morire sulla tomba di Achille che vivere ed essere schiava”. Sul promontorio soffiava un vento freddo, e io rimasi lì, a sentirmi volgare, stupida e abietta al cospetto della loro fiera purezza. Ma poi il bambino scalciò. Premetti forte una mano sulla pancia e mi rallegrai di aver scelto la vita.»
In conclusione quindi, un romanzo riuscito, che, pur facendoci riconsiderare l'Iliade con uno sguardo diverso, ne conserva comunque la potenza e la grandezza letteraria.
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Briseide
Chi non conosce il racconto della guerra di Troia anche se di fatto siamo tutti un poco abituati a ricordarla per quella versione tramandata dai greci e in cui protagonista indiscusso fu il genere maschile? Grande merito di Barker è dunque quello di aver cercato di dar voce alle donne, alla loro posizione, alla loro sconfitta e alla loro vittoria. Un esperimento molto interessante che trova la sua degna e giusta protagonista in Briseide, regina di Lirnesso e che da qui si snoda ripercorrendo quella strada che abbiamo tutti almeno una volta nella vita solcato nei nostri anni di lettura e di studi.
La narrazione, dunque e per effetto, non può che avere inizio con l’assedio da parte degli achei della città di Lirnesso, alleata di Troia e primo teatro dove ha luogo l’uccisione di tutti gli esponenti del sesso maschile dai greci. Briseide è il trofeo, al contempo la schiava di Achille. Ancora, è una sopravvissuta.
E pagina dopo pagina le vicende scorrono, si susseguono, sono le donne a dettare i tempi, ad ergersi con la loro presenza. Tutto in perfetto parallelo a quello che è il mito; riconosciamo voci e attori, eroi astiosi e iracondi, altrettanti dittatori privi di raziocinio, figure che trovano la loro espressione nel ricordo e nella memoria e che si riconducono alla figura per eccellenza della prigioniera perfetta.
Tuttavia la lettura non è riuscita completamente a coinvolgermi. Oltre ad aver riscontrato qualche errore nella ricostruzione o comunque alcune imprecisioni, il fatto di non staccarsi completamente dall’originale fa sì che chi legge non riesca a farsi totalmente travolgere dalle emozioni e dalle vicende, anzi. Se a ciò si aggiunge la presenza di qualche prolissità in eccesso, il risultato è quello di un testo che perde di intensità man mano che prosegue e che fatica a farsi ultimare.
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Il pianto corale delle troiane
“Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”. Quanti di noi hanno imparato a memoria questi versi? E quanti di più hanno anche solo sentito nominare il ratto di Elena, le gesta di Ettore, la saggezza di Nestore, l’astuzia di Odisseo, l’audacia dei due Aiace, il dolore di Andromaca, lo strazio di Priamo?
Che si sia letta l’Iliade, faticosamente tradotto Omero o soltanto udito il racconto della guerra di Troia, sono tutti fatti di dominio pubblico, al punto che anche i registi hollywoodiani si sono sentiti in diritto di sfruttarli e, magari, storpiarli a loro piacimento.
Però la "storia ufficiale" che ci viene narrata è quella tramandata dai greci, i discendenti di coloro che vinsero la guerra: gli achei maschi. Mai nessuno, sino a oggi, aveva tentato di dar voce a chi la sua versione mai ebbe l’opportunità di farla udire: le donne sconfitte, le abitanti di Troia e delle città alleate, fatte schiave dagli invasori.
Chi, meglio di Briseide, già regina di Lirnesso e, poi, schiava di Achille e casus belli del dissidio tra il Pelide e Agamennone, poteva farsi portavoce del dolore di questa umanità sofferente e violata? Ne “Il silenzio delle ragazze” l’A. si cimenta in questo interessantissimo esperimento, molto in linea con le rinnovate istanze di parità di trattamento tra uomo e donna.
Così si diventa partecipi della ipotetica storia di questa giovanetta. Prima sposa-bambina di Minete di Cilicia. Poi spettatrice della caduta di Lirnesso, dove Achille fa strage tra gli abitanti. In seguito “premio” dato in dono all'eroe acheo e oggetto della contesa tra questi e Agamennone. Infine testimone degli strazi che la guerra produce equamente tra i vinti e tra i vincitori sino al crollo finale di ogni speranza assieme alle mura di Troia.
Anni fa avevo apprezzato moltissimo “Il canto di Troia” dell’ottima Coleen McCullough, dove l’autrice australiana aveva provato a raccontare i fatti spogliandoli dal mito, sbattendo fuori dalla vicenda gli dei e le loro intrusioni inopportune, limitandosi a narrare una storia di uomini con le loro imperfezioni, i loro limiti e le loro pulsioni. Prendendo in mano questo volume speravo di trovarmi di fronte a una operazione similare che mi facesse ascoltare l’altra campana, quella degli sconfitti, anzi, delle donne sconfitte e umiliate.
Probabilmente le mie aspettative erano troppo alte e sono andate deluse: la Barker non s’è rivelata adeguata al compito che, lo riconosco, era difficile. Per rendere concrete e tangibili le sofferenze di Briseide e delle altre si sarebbero dovuti calare i personaggi nella loro dimensione umana. L’A., invece, non avuto il coraggio di abbandonare il mito dal quale si discosta solo a corrente alternata rifiutando alcuni fatti non meno incredibili di altri che, invece, accetta placidamente. Così ci viene ammannita una versione riflessa del racconto omerico, cioè vista attraverso uno specchio (troiano) che un po’ distorce e un po’ offusca. Conseguentemente dalla lettura non apprendiamo molto di più di ciò che già sapevamo: che Achille conserva la sua natura semi-divina ed è iroso come un cane idrofobo; Agamennone è un tiranno privo di raziocinio e uno stupratore arrogante; Odisseo è subdolo e intrigante; Patroclo è gentile e quasi femmineo. Non ci vengono forniti approfondimenti o giustificazioni (credibili) per questi caratteri stereotipati.
Il racconto che ci fa in prima persona Briseide perde rapidamente di mordente e diviene una ripetitiva e monotona lamentazione contro la crudeltà achea e sul suo stato servile di “cosa” nelle mani degli invasori. Ha lo stesso ritmo monocorde del coro delle tragedie greche. Invece di essere il filo conduttore della storia ne diviene solo l’accompagnamento di sottofondo mentre questa resta, sostanzialmente immutata, quella cantata da Omero. Gli unici sentimenti di cui ci fa partecipe la ragazza sono il rancore nei confronti di coloro che la tengono schiava, il rimpianto per i privilegi perduti e una generale misantropia contro i maschi arroganti. I commenti delle altre ragazze sfiorano la banalità quando non sono cicalecci pettegoli.
L’A., non essendo riuscita a liberarsi dal retaggio omerico e immaginare come potessero essere andati concretamente gli eventi, ci pone di fronte a situazioni che sfiorano la comicità involontaria: l’offerta dei cento tori sacrificali per Apollo imbarcata su un’unica galea? Ma se le pentecontere del XIII secolo a.C. a stento potevano ospitare un centinaio di uomini seduti stretti ai remi. L’esercito acheo, forte di cinquantamila guerrieri, accampato per nove anni davanti a Troia, che vive nel dissoluto spreco di ogni bendidio sol grazie alle razzie nel contado, quando nessuno (assedianti o assediati) si dà la pena di coltivare il terreno ormai trasformato dai continui movimenti di truppe in acquitrino fangoso?
Davvero imbarazzanti, poi, sono i falsi storici che occhieggiano tra le righe. Le navi achee vengono ormeggiate calando in mare le ancore collegate a pesanti catene di (si presume) rarissimo e costosissimo ferro. La battaglia tra le opposte schiere è immaginata come una guerra di posizione stile Verdun 1916, con il fronte che si sposta ora verso l’accampamento acheo ora verso le mura della città con tanto di trincee scavate nel fango. L’armatura di Achille ci viene descritta più simile a quella del Gattamelata che a quella che, presumibilmente, poteva indossare un guerriero dell’età del bronzo, pur ricco. Non vale neppure un commento il fatto che i Mirmidoni cantino versi tratti dal Faust di Christopher Marlowe.
Anche i sentimenti e gli stati d’animo dei protagonisti più che analizzati sono enunciati in modo assertivo e ripetitivo, quasi che l’insistere sui vari concetti li renda più accettabili.
In definitiva da un lato si deve riconoscere il fine meritorio del romanzo, il quale conserva una sua non disprezzabile valenza come metafora della condizione femminile nelle guerre degli uomini. Ma esso risulta spesso noioso e scarsamente credibile. In tal modo l’empatia che saremmo portati a sentire per le vittime di quella guerra (anzi, di tutte le guerre) appare annacquata mentre i passaggi belli, le suggestive descrizioni, le riflessioni profonde, che pure non mancano, si perdono in una narrazione talvolta piatta, talvolta artificiosamente ridondante e aulica, in genere poco coinvolgente.