Il serpente
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Un romanzo fuori dai canoni
Attratto dalle ottime recensioni, come mia abitudine prima di acquistare un libro, ho approfondito la figura dell’autore. Mi trovo così davanti a Stig Dagerman, giornalista e scrittore svedese che, già con il suo esordio Il Serpente (1945), ottiene ampio consenso, lodato tanto dalla critica di sinistra quanto da quella di destra. Il romanzo diventa presto un cult della letteratura svedese. Scopro anche un anarchico, ostile a ogni sistema, sempre dalla parte dei più deboli, in cui avverto echi di Kafka, Camus e, per me soprattutto, Faulkner.
Incuriosito, ho letto il libro. E dico subito che raramente ho incontrato una narrazione tanto difficile da seguire. È un romanzo che va affrontato con pazienza e concentrazione, ma anche letto con continuità per coglierne la struttura profonda. Serve memoria, come spiega Fulvio Ferrari nella postfazione (che forse sarebbe utile leggere come prefazione): “pochi libri richiedono tanta attiva partecipazione del lettore per ricostruire vicende in parte narrate e in parte alluse...”.
Il romanzo è diviso in due capitoli: IRENE e NON RIUSCIAMO A DORMIRE, quest’ultimo articolato in cinque parti che potremmo quasi definire episodi, ciascuno dotato di autonomia narrativa. È proprio questa frammentazione a richiedere uno sforzo di sintesi da parte del lettore, per ritrovare la coerenza interna del romanzo, che emerge pienamente solo sul finale. I personaggi di IRENE non riappaiono, se non indirettamente: Bill, il soldato che cattura il serpente del titolo, è l’unico legame esplicito. Il serpente, come presenza fisica, scompare fino al racconto omonimo, ma il termine — o altri che lo evocano — ricorre costantemente come simbolo della paura.
Insieme al serpente, un altro simbolo domina: il cerchio di ferro (titolo del secondo episodio del secondo capitolo), metafora dell’angoscia generata dalla paura stessa. Questi due simboli — più ancora dei personaggi — costituiscono il vero filo conduttore del romanzo. Dagerman costruisce così un’opera fortemente simbolica, in cui la narrazione è quasi un pretesto per un’indagine esistenziale.
Un elemento che pesa inevitabilmente sulla lettura è la tragica fine dell’autore, suicida a soli 31 anni. Alcuni critici (tra cui Ferrari) attribuiscono la sua morte a una crisi creativa, altri a una più radicale impotenza nel cambiare il mondo, nonostante il successo. A prescindere dalle cause, ciò che colpisce è la presenza costante della morte nei suoi testi: una compagnia oscura, che Dagerman nomina, tematizza, e che sembra ineluttabile. Nell’ultimo racconto del libro, Scriver — alter ego dell’autore — il protagonista precipita da un balcone nel tentativo di vincere la paura. Questo epilogo, scritto otto anni prima del suicidio, sembra anticiparlo con tragica lucidità.
Nel saggio Il nostro bisogno di consolazione, scritto due anni prima di morire, si legge: “Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa”. Un uomo complesso, dunque, che nella sua scrittura richiama davvero gli autori con cui è stato accostato.
Il Serpente è un libro potente, fuori dai canoni, ricco di simboli, oscuro ma affascinante. Non è un romanzo facile né da seguire né da dimenticare. Lo consiglio, con convinzione, ma non è una lettura da ombrellone.