Il ponte sulla Drina
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Romanzo monumentale
Cinque stelle e lode per questo romanzo di Ivo Andric pubblicato nel 1945!
L’autore, Premio Nobel per la Letteratura all’inizio degli anni Sessanta, nacque nella Bosnia del 1892 già sotto occupazione austro-ungarica da quasi una quindicina d’anni; anche i bosniaci, dunque, hanno fatto parte a pieno titolo – come non a caso lo stesso romanzo racconta – dell’impero di Francesco Giuseppe, all’interno di uno sconfinato melting pot in cui erano presenti differenti nazioni e confessioni religiose. Di tale commistione di popoli relativa alla propria terra Andric parla ampiamente in questa sua opera, e lo fa tornando molto indietro nel tempo: la narrazione, infatti, prende avvio dalla prima metà del XVI secolo, quando la zona era in mano ai turchi ottomani, per giungere infine sino al principio della grande guerra con il fatale attentato di Sarajevo e le iniziali operazioni armate tra Austria e Serbia, mentre tutta l’Europa veniva inevitabilmente risucchiata nel vortice di un conflitto disastroso che si sarebbe protratto per anni.
Fanno da scenario al lungo racconto la cittadina di Visegrad e le sponde dell’impetuoso fiume Drina, dove per iniziativa del visir Mehmed Paša Sokolovi? nella seconda metà del Cinquecento venne costruito un maestoso ponte di pietra a cui finiscono per legarsi in modo indissolubile le sorti di tutti gli abitanti della cittadina, slavi e turchi (e non solo) indistintamente .
Ed è proprio lui, il ponte sulla Drina, solido e pressoché immutato nei secoli, il protagonista assoluto di queste meravigliose pagine caratterizzate da una prosa che riesce a coinvolgere e incuriosire il lettore dalla prima all’ultima riga; pagine in cui s’intrecciano la grande Storia e le piccole storie, spesso drammatiche, di coloro che, generazione dopo generazione, per centinaia d’anni transitarono sul ponte, lo stesso che vide passare due giganteschi imperi (quello d’Istanbul e quello di Vienna), entrambi destinati a scomparire sotto i colpi della prima guerra mondiale, e su cui s’incontrarono Occidente e Oriente, Cristianesimo e Islam.
Un romanzo capolavoro!
“E così, in mezzo a tutta quella nuova tempesta che si riversò sulla città, […] il ponte continuò a stare in piedi, bianco, duro e invulnerabile, come era stato da sempre.”
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Ivo Andric e la monotonia della storia
I libri vanno sempre conclusi. È con questa legge morale, imposta alla mia coscienza, che mi avvicino alla lettura di un libro, risultato di creatività e ingegno letterario dello scrittore. Meritano pertanto tutto il mio rispetto.
Ma qui, pur stimando la storia e la sensibilità di Ivo Andric, ho ceduto. Ho ceduto perché eccessivamente monotono e disarmonico.
Il ‘Ponte sulla Drina’ si presenta fin da subito come un racconto volto a ripercorrere la storia della Bosnia e tutte le storie che accadono in quel fazzoletto di terra collegato da questa imponente opera di ingegno che ha permesso di unire culture, saperi, lingue, conoscenze e religioni. Non senza problemi. Non senza tensioni. Non senza diffidenza e paura. E lo scrittore cerca di rappresentare e tradurre la complessità della storia in questo romanzo.
La disamina storica che ne consegue è accurata e il tentativo di intervallarla con racconti narrativi a mo’ di vero e proprio romanzo storico è apprezzabile, ma non riuscita. Si è cercato di comporre un mosaico omogeneo di racconti paralleli che mettessero in luce l’eccezionalità della cittadina di Visegrad, crocevia di etnie e popoli, e che potessero essere facilmente integrati con il racconto più prettamente storico.
Tuttavia il ritmo rimane eccessivamente lento e monotono come i secoli che lentamente scorrono impassibili per la vista di quel maestoso ponte, voluto dall’impero ottomano, che domina l’intera vallata e oltre.
La cifra stilistica scelta dallo scrittore, probabilmente influenzato dalla seconda guerra mondiale appena conclusasi, non può che andare a discapito della piacevolezza e fruizione del racconto.
Il puzzle di storie sapientemente pensato mal si concilia nella trama -se così può essere definita- del libro, ma ogni singolo pezzo rimane un po’ a sé, slegato da quello precedente.
Sono consapevole di andare contro corrente, ma la colpa è mia: Ivo Andric non è adatto a tutti e io non sono adatto a lui. Le mie aspettative verso questo premio Nobel erano alte e probabilmente se fossi stato uno storico interessato a quelle terre e a quei luoghi, le righe scritte precedenti a questa sarebbero state un tripudio di giubilo e felicità.
Il racconto si rivolge a una nicchia di lettori e io non sono tra questi.
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UN PONTE CROCEVIA DI CULTURE
“Il ponte sulla Drina” è la storia di Visegrad, una piccola cittadina bosniaca situata al confine tra mondo cristiano e mondo musulmano, e quindi crocevia di etnie, fedi e culture molto diverse tra loro; ed è anche, come si evince dal titolo, la storia del suo ponte, costruito nel XVI secolo e fatto assurgere dall’autore a muto e apparentemente inalterabile testimone dell’avvicendarsi di generazioni umane e di avvenimenti storici, sociali e naturali, ora drammaticamente incalzanti ora prosaicamente quotidiani. Proprio come il fiume che passa maestoso sotto il ponte, Ivo Andric nel suo libro osserva il lento scorrere degli anni con lo sguardo imperturbabile e impassibile di chi giudica gli eventi, le persone e le cose “sub specie aeternitatis”. Molte pagine sono cruente, quasi al limite dell’insopportabilità (nei primi capitoli un uomo viene impalato vivo, e il supplizio è descritto nei più minuti dettagli, più avanti un altro è inchiodato a un palo per un orecchio), eppure ciò non turba più di tanto il ritmo pacato e fluente della sua prosa. Allo stesso modo i cambiamenti politici e socio-economici (il passaggio dall’impero ottomano a quello austro-ungarico, i progressi portati dalla modernità) sono narrati con quella saggia e lungimirante filosofia di chi sa che solo il tempo è il vero giudice della storia e perciò guarda con compassione ai patetici tentativi degli uomini di contrastare la sua inesorabile legge. Alluvioni, epidemie e rivolte lasciano così dietro di loro immani strascichi di distruzione e di sofferenza ma pian piano vengono dimenticate e sostituite dall’indifferenziato trascorrere della vita di tutti i giorni, così come presto dimenticati (o per meglio dire trasferiti nella sfera idealizzata della leggenda e del mito) sono i vari Radisav (il serbo impalato per avere boicottato i lavori di costruzione del ponte, che l’immaginario collettivo trasforma in una sorta di invincibile eroe cristiano), Arapin (l’attendente moro rimasto schiacciato da un grosso blocco di pietra, il cui spirito si pensa continui a vivere all’interno del ponte), Ilinka la matta (la povera idiota convinta che i suoi due figli, in realtà nati morti, siano stati rapiti dai turchi per essere murati in un pilastro del ponte), Fata (la bellissima ragazza gettatasi nel fiume il giorno delle sue nozze), Milan Glasincanin (il giocatore d’azzardo che passa un’intera notte a scommettere col diavolo in persona), e ancora Pop Nikola e Mula Ibrahim (i maggiorenti della città, grandi amici pur essendo i capi delle due opposte comunità religiose, quella cristiana e quella islamica), Fedun (il militare suicidatosi per aver fatto passare alla “porta” il brigante Jakov travestito da donna), Lotika (l’affascinante e infaticabile albergatrice che dopo una vita di sacrifici e di abnegazione finisce pazza), Mujaga (l’eterno profugo, perseguitato ad ogni suo spostamento dagli inattesi cambiamenti dei governi e delle dominazioni) e tante altre figure (tra cui quella di Alihodza, presenza ricorrente degli ultimi decenni della narrazione, con la cui morte si chiude il libro), che tutte insieme vengono a comporre un suggestivo mosaico collettivo. Alla luce di tutto ciò, è facile capire come per rintracciare una visione morale nella disincantata e cronachistica scrittura di Andric sia necessario andare a spulciare con pazienza ed attenzione tra le pieghe di considerazioni apparentemente neutre e distaccate: soltanto così è possibile far emergere, dalla semplice successione di aneddoti tragici o divertenti cui “Il ponte sulla Drina” rischia di essere sbrigativamente ridotto, quell’orrore per la “famelica bestia” che di quando in quando, dopo essere rimasta per tanto tempo celata all’interno di leggi, usi e consuetudini civili, fuoriesce incomprimibile sotto forma di intolleranze etniche, di esplosioni di violenza bestiale, di laceranti conflitti che distruggono in pochi giorni le fortune faticosamente costruite in un’intera vita (e la mutilazione finale del ponte, un pilastro del quale viene, dopo essere stato minato, fatto saltare dai soldati austriaci in ritirata, è un eloquente simbolo di quanto ora detto). Andric non è un Saramago, e gli abitanti di Visegrad non hanno lo stesso spessore emotivo di quelli dell’Alentejo, ma “Il ponte sulla Drina” è ugualmente un romanzo intrigante, se non altro perché con mezzi espressivi semplici e lineari, di facile e immediata “leggibilità”, porta alla ribalta una regione del tutto sconosciuta ai più, cui la dizione “di frontiera” si addice perfettamente non solo dal punto di vista geografico ma anche e soprattutto da quello letterario.
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Il rispetto per gli altri
Almeno io ne sapevo ben poco della storia dei Balcani e in particolare della Bosnia, teatro di un recente conflitto derivante dalle varie secessioni della Repubblica di Jugoslavia, ora non più esistente. Eppure si tratta di fatti di nazioni che ci sono abbastanza vicine, ma che ci sono soprattutto note per massacri di cui spesso ci sfuggono i motivi. Il problema è che quelle zone ci sono sempre sembrate delle semplici entità geografiche, dapprima assoggettate all’impero ottomano e poi a quello austro.ungarico, territori che nel nostro immaginario sembravano costituire un’unica entità e che invece erano e sono popolati da nazionalità ben diverse e ben distinte. Nel leggere questo romanzo storico, scritto da Andric fra il 1942 e il 1943, pubblicato nel 1945 appena finita la seconda guerra mondiale, ne possiamo sapere motto di più e peraltro in modo piacevole, benché il ritmo sia lento, come i secoli in cui si svolge la trama, ma è lo scotto da pagare per poter finalmente capire. Tutto si svolge nella cittadina di Visegrad, sita nella parte orientale della Bosnia, in un arco di tempo che va dal XVI secolo fino alla Prima guerra mondiale. Il protagonista non è una persona, ma un ponte eretto sul fiume Drina per volontà di Mehmed Sojolovic Pascià, un Visir dell’impero ottomano originario del luogo. Questa costruzione, imponente e anche ardita, vede impassibile, come la pietra di cui è fatta, avvenimenti, fatti e conflitti che accaddero in questo lungo periodo in quella terra. Si sviluppano così una serie di racconti, anche di aneddoti, ambientati intorno al ponte o anche sullo stesso dando vita a un romanzo storico epico e di grande respiro, corale, ma anche individuale, con cui Andric ci rende edotti della storia di Visegrad e dell’intera Bosnia, un cuscinetto interposto fra le culture orientali e quelle occidentali, fra la religione mussulmana e quella cristiana, luogo di passaggio di mercanti che si spostano da un mondo all’altro, così che le genti balcaniche si mescolano, inevitabilmente contaminate da altre civiltà, in uno scambio continuo, che se da un lato rappresenta una fonte insperata di crescita, dall’altro è motivo di conflitti, spesso sanguinosi. Ivo Andric descrive e racconta con un senso di umana pietà, approfondendo le tematiche e senza mai giudicare, ma non solo, perché ha la capacità di farci rivivere situazioni e ambienti, finendo con il porgerci la mano per poter entrare anche noi nel cuore di quella che é l’ex Jugoslavia.
Pagina dopo pagina si finisce con l’essere avvinti e giunti all’ultima mi sono accorto che Andric è riuscito a sfatare i miei preconcetti, in un messaggio, di grande efficacia, di pace e di rispetto, non solo fra quelle etnie, ma per tutte le etnie, poiché la storia che ognuno di noi si porta dietro, quella che chiamiamo le nostre radici merita lo stesso rispetto di quella degli altri. E quindi Il ponte sulla Drina va oltre il semplice romanzo storico, ma è una di quelle opere che restano patrimonio dell’umanità.