Il pianto delle troiane
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Top 50 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Il lutto si addice alle troiane
Troia è caduta. Pirro, figlio di Achille, uscito dal cavallo assieme ai migliori guerrieri achei, è penetrato nei palazzi reali e ha ucciso re Priamo; piuttosto goffamente in realtà, ma ora si comporta come se la vittoria sia merito suo. Il cadavere del sovrano giace insepolto nella campagna, cibo per larve e animali selvatici. Agamennone è in preda allo scoramento, perché Cassandra ha predetto che, al suo ritorno a Micene, Clitennestra lo ucciderà. La guerra decennale è vinta, ma gli achei sono ancora bloccati sulle coste della Troade: un vento maligno e insistente inchioda le navi a terra e gli uomini, spossati dall’interminabile attesa, sono sempre più irritabili e violenti. Perché gli dei sono irati con loro?
In questa atmosfera elettrica Briseide – inizialmente “preda d’onore” di Achille, poi causa indiretta della sua “ira funesta”, infine, dopo la morte dell’eroe, sposa di Alcimo, suo fedele compagno d’armi – cerca di barcamenarsi, sperando di conservare i pochissimi privilegi che, dopo anni di dolori e umiliazioni, le vengono dall’aver sposato un nobile guerriero vittorioso e dal portare in grembo il figlio del Pelide. Ma la situazione è assai difficile e, a complicarla, ci si mettono pure le sue compatriote prigioniere. Ecuba, vedova di Priamo, passa da momenti di puro scoramento, nei quali ulula per la perdita del marito, a gesti di sfida contro i vincitori. Andromaca, dopo aver perso il marito Ettore e il figlioletto Astianatte, gettato dalle mura, è profondamente prostrata, ma fa parte del bottino Pirro, instabile e violento, e deve subirne le angherie. Amina, una giovane troiana ligia agli antichi riti, non si dà pace nel sapere che Priamo è ancora insepolto: vuol sfidare il divieto di Pirro che ha minacciato la morte a chi si azzarderà a seppellirlo. Cassandra a tratti è catatonica e a tratti sragiona e ripete le sue funeste profezie in cui nessuno crede, ma tutti temono. Anche l’indovino Calcante è frustrato per non saper interpretare il volere degli dei e umiliato dal fatto che Agamennone lo ignori.
Questo romanzo è il seguito de “Il silenzio delle ragazze” e ci racconta degli esiti della guerra di Troia, dall’ingresso del cavallo entro le mura sino ai solenni funerali di Priamo e alla partenza delle navi degli achei. L’A. ripercorre il mito, ampiamente trattato nelle numerose opere del ciclo troiano, accettando pedissequamente ciò che la tradizione ci ha tramandato anche se non è raro che la narrazione mischi il mito alla pura invenzione, la quale spesso tradisce il primo stravolgendone alcuni fatti (magari facendo “risorgere” personaggi che già dovrebbero essere morti durante la guerra) o concependone di completamente nuovi e apparentemente inconciliabili con le premesse note.
Lo stile è quello che già abbiamo imparato a conoscere nel primo libro: cupo, opprimente, venato da una generale misantropia contro gli achei e, in generale, contro gli uomini, reputati capaci di ogni crudeltà e bassezza contro le donne. Queste, poi, possono solo subire passivamente cercando solo di parare alla meglio i colpi che a loro vengono inferti e covando in seno un odio (sterile?) contro chi le ha private di figli, mariti e genitori, senza il coraggio di esternarlo in una reazione aperta. Sotto questo aspetto particolare spicca, solitaria, la figura di Amina, l’unica che sa tenere testa alle ire di Pirro e l’unica che, prefissatasi una missione “di giustizia”, la porterà a termine rivendicando l’autonomia della sua determinazione e accettandone con temerarietà tutte le conseguenze, anche le più estreme.
Contrasta con questa fermezza il comportamento della narratrice, Briseide, che si dibatte nel suo duplice ruolo di donna libera (rectius liberata), che teme di compromettere il poco che ha acquisito, e di troiana che dovrebbe essere solidale con le compagne ancora schiave e, dalla sua posizione di vantaggio, cercare di alleviarne la pena. In bilico tra questi due ruoli è costantemente animata da dubbi, incertezze, titubanze, al punto che, quando aiuterà Amina, lo farà solo per una reazione compulsiva, dettata dal desiderio di portare a termine il più in fretta possibile un compito che mai avrebbe affrontato scientemente.
La figura di Pirro dovrebbe sostituire quella di Achille nel ruolo di antagonista delle troiane. Ma come il giovane dimostra di non essere all’altezza del padre come guerriero impavido così non lo è neppure come personaggio tormentato. Per quanto possa essere interessante la lotta interna che deve affrontare con sé stesso e con il fantasma del Pelide e della sua gloria, tutto appare abbastanza irrisolto. Più che un individuo straziato ci appare come un ragazzino viziato che non si capacita di non ottener tutto ciò che desidera e crede gli spetti.
In fondo vera e unica protagonista del romanzo è l’attesa, una oppressiva, esasperante attesa che qualcosa muti. Per i guerrieri achei si tratta del clima (peraltro argomento principale di tutte le loro conversazioni, come in un pub di Chelsea) e delle condizioni del mare per la partenza. Per le donne prigioniere è il loro status; al momento una specie di limbo in cui la schiavitù è, sì, oppressiva, ma ancora non ben definita come lo sarà quando verranno condotte come prede in Grecia. Per alcune di loro (Cassandra ed Ecuba, ad esempio) è solo l’attesa della morte che reputano imminente. Per Briseide, infine, oltre all’attesa che le impone l’impegnativa gravidanza di un figlio di cotanto padre, c’è quella indicibile che il suo ruolo si definisca, in un modo o in un altro.
Questo indugio continuamente protratto rende il racconto abbastanza soffocante e parzialmente claustrofobico.
Il tono grave, ma sostanzialmente piatto, della narrazione non muta per tutto il romanzo, rendendo non piacevolissima la lettura che procede lenta, come lenti si evolvono gli eventi, privati di azioni eroiche (se si esclude quella di Amina, che, però, ci viene descritta solo nelle fasi finali), ma zeppi di comportamenti neghittosi o isterici. Il linguaggio usato talvolta è brutale, e come molti comportamenti spesso appare inconciliabile con una civiltà del XIII secolo a.C., più spesso è solo monotono e soporifero.
Come nel libro che l’ha preceduto, è inutile cercare la piena coerenza storica: non è raro che l’A. commetta anacronismi e forzature per assecondare la realtà (quantomeno quella che sarebbe dovuta essere la realtà di allora) al flusso della narrazione, magari inserendo citazioni di testi ampiamente posteriori o situazioni inconcepibili per l’epoca del bronzo.
In conclusione si tratta di un libro interessante per i temi trattati, meno noti al grande pubblico delle vicende dell’Iliade, ma non propriamente compiuto. Come il volume che l’ha preceduto è permeato dal solo rancore nei confronti degli achei oppressori, senza alcuno sviluppo ulteriore e non si può fondare un intero romanzo sul solo astio inespresso. Quello che mi è mancato di più, però, è il coraggio di spogliare definitivamente la storia dal mito, e di raccontare quella che, forse, fu la vera vicenda di quella lontana guerra, la quale, come tutti i conflitti che l’hanno seguita, seminò vero dolore e vero orrore, soprattutto per coloro che del clamore delle armi furono solo le vittime senza poterne essere pure gli artefici e che, qui, avrebbero potuto finalmente rendere una testimonianza postuma.