Il disertore
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Tre storie d'amore
Davanti una piccola bottega piena di olio, spezie, legumi, datteri, zucchero, riso, non per arricchirsi, ma per vivere sereni. Sul retro una modesta abitazione, il nido d'amore di Hassanali e Malika. Con loro c'è anche Rehana, sorella di lui, intrappolata in una sorta di "vedovanza bianca" da quando il marito è partito per un viaggio di affari senza più fare ritorno, né dare notizie di sé. Una vita tranquilla, fatta di lavoro, piccole soddisfazioni, abitudini ormai consolidate. Un menage che viene sconvolto una mattina in cui Hassanali si imbatte in quello che, a prima vista, gli appare come un inquietante spettro. Dopo lo spavento iniziale, l'uomo si accorge che il fantasma altri non è che un essere umano, in carne ed ossa, seppur in pessime condizioni di salute. Il soccorso arriva immediato, l'uomo, un bianco, viene trasportato con l'aiuto i due giovani nella casa del bottegaio, dove gli vengono prestati i primi, rudimentali soccorsi. L'ingresso in casa dell'inglese cambierà per sempre l'ordine delle cose, accendendo una passione incontenibile tra il nuovo arrivato e la bella Rehana. Ma nella colonia inglese del Kenya di fine Ottocento, come può essere vista una storia d'amore tra un uomo bianco e una donna di colore? "Se non che, Martin continuava a pensare a lei. Forse si disse: "Non posso resistere, non posso frenarmi." Quando pensava a lei, il suo struggimento (molto presto era diventato questo) si rafforzava a ogni ricordo. Ci furono dei momenti, nei giorni e nelle notti che seguirono, in cui Martin chiuse gli occhi apposta per evocarla, e la sentì come se fosse vicinissima, sentì addosso lo sguardo di lei e sul viso il lieve tremore del suo respiro." Con un salto temporale ci troviamo due generazioni più in là, nel Kenya degli anni Cinquanta che si prepara all'indipendenza, a fare la conoscenza di Amin, di sua sorella Farida, e del fratello Rashid. Seguiamo i tre ragazzi nel loro percorso di crescita dall'infanzia fino agli studi universitari. Conosciamo i loro genitori, gli zii, gli amici, e il contesto sociale in cui vivono. Viene spontaneo, ad un certo punto del racconto, chiedersi quale nesso unisca la prima storia con la seconda. La risposta arriva attraverso la bella e affascinante Jamila, capace di coinvolgere Amin in un travolgente turbine di passione e sentimento. Jamila è figlia di Asmah, a sua volta frutto della tanto osteggiata relazione tra Rehana e l'inglese Martin Pierce. Come nel caso della nonna, anche per Jamila l'amore non potrà che portare guai. "Sussurravano e facevano l'amore e soffocavano le loro risate, e quando arrivava il momento in cui lui doveva andarsene, si aggrappavano l'uno all'altro come pazzi disperati. Gli diede un anello con un rubino così che lui avesse qualcosa per ricordarla quando erano distanti, e a volte gli infilava dei bigliettini nel taschino della camicia, in cui gli scriveva come il pensiero di lui, il suo odore e le sensazioni che le dava riempivano la sua vita. Amin le diceva che si sentiva male dall'amore. Quando non era con lei aveva paura di perderla, paura delle parole che potevano portargliela via. Poi quando era con lei non pensava a niente fuorché al suo corpo, al suo respiro e a come Jamila lo completava. Si sentiva in grado di affrontare tutto e tutti." A questo punto si cambia ambientazione. Ci spostiamo in Inghilterra, dove Rashid, voce narrante, si trasferisce per studiare grazie ad una borsa di studio. Le difficoltà di ambientamento, gli episodi di discriminazione che dovrà subire, la nostalgia per la famiglia e per la propria terra, non impediranno al ragazzo di concludere brillantemente il suo corso universitario e di trovare un impiego adeguato alle sue competenze. Ma da quando Rashid mette piede in Europa, gli unici rapporti che gli restano con la sua casa sono di tipo epistolare. Soltanto attraverso le lettere del fratello Amin conoscerà le sorti dei suoi familiari e della sua patria che, dopo anni di sottomissione al colonizzatore straniero, si troverà divisa ed impreparata quando sarà il momento di camminare sulle proprie gambe. Per Rashid sarà quasi inevitabile sentirsi addosso l'onta del disertore, finché sarà proprio il desiderio di ricostruire le vicende amorose che hanno dato inizio al racconto a spingerlo verso il ritorno. "Poco dopo ricevetti e lessi il taccuino di Amin, e compresi che nonostante il mio desiderio di riuscirci, non ero stato capace di immaginare l'angoscia delle loro vite. A quel punto però sapevo cosa dovevo fare. Era tempo di tornare a casa, se così la potevo chiamare, era tempo di andare a trovare i miei, di accantonare le mie paure e di implorare il perdono per averli abbandonati. La visita avrebbe fatto piacere a loro e a me, e avrei ridato vita a nervi e fibre che per troppo tempo non avevano ricevuto linfa." Girando intorno al concetto di" amore proibito", il neo Premio Nobel Abdulrazak Gurnah racconta l'Africa e gli Africani con quel tocco di malinconia capace di rendere le atmosfere quasi fatate, portandoci in un Paese che, pur essendo legato ad ataviche tradizioni e convenzioni religiose, appare molto più moderno di quello che si possa immaginare, con una forte vocazione multietnica e una grande attenzione alla cultura, locale ma anche estera. Servendosi di uno stile di alto livello, l'autore usa il sentimento amoroso come pretesto per affrontare temi meno ameni ma altrettanto interessanti come il colonialismo e i suoi effetti, il razzismo, il perbenismo che troppo spesso tarpa le ali alla passione, l'emigrazione dei giovani più dotati verso mete più ambiziose. Un'analisi in cui il dito viene puntato non solo verso chi, per secoli, ha sottomesso la terra e la gente, sfruttando risorse e manodopera, per poi tornarsene a casa con le tasche piene e la coscienza vuota e ora storce il naso davanti alla parola immigrazione e tende a respingere chi si avvicina alle proprie coste. Gurnah non può fare a meno di sottolineare come il suo popolo si sia fatto trovare impreparato al momento dell'indipendenza, diviso, incapace di prendere in mano il proprio destino nell'interesse della collettività, cadendo nel solito errore di farsi accecare dalla sete di potere e finendo per comportarsi, sotto molti aspetti, nello stesso modo degli invasori stranieri. "Con il tempo scivolai in una condizione di estraneità meno intollerabile. Vivendo giorno per giorno, la sensazione di estraneità diventò una specie di emblema dalle origini indeterminate. Ben presto cominciai a usare espressioni come "neri" e "bianchi", proprio come facevano tutti, e, proferendo questa menzogna con facilità crescente, mi arresi all'uniformità della nostra differenza, mi sottomisi alla ottundente visione di un mondo diviso in razze. Perché accettando di essere neri e bianchi, noi accettiamo anche di limitare la complessità delle possibilità, sottoscriviamo le menzogne che per secoli hanno servito e continueranno a servire gli appetiti crudeli del potere e dell'autoaffermazione patologica."