Fratelli di sangue
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L’eco di Alexanderplatz
«Crepare di fame? Va bene! Ma dove dico io!» Ulli, uno dei tanti protagonisti di questo romanzo corale, ha le idee ben chiare sugli obiettivi da raggiungere. La strada è stata la sua casa fin dall’infanzia, e raggiunta la soglia dei fatidici ventuno festeggia la sua liberazione dalla minaccia del riformatorio.
I riformatori tedeschi dell’epoca sono i luoghi che ospitano i minorenni che non possono più vivere in famiglia: li tolgono dalla strada, ma l’unica prospettiva che offrono è la disoccupazione. Là dentro, bambini e ragazzi non sono accolti, ma raccolti. Là dentro, non sono educati, ma sottomessi all’arbitrio e al capriccio di chi comanda. Là dentro, l’identità e il carattere vengono annientati. Là dentro, si perde la libertà in cambio di una misera sopravvivenza. Chi si adegua, è destinato a diventare “una persona senza spina dorsale, una natura servile che lascia l’istituto per iniziare la lotta con la vita. Una lotta che Heinz condurrà sempre con il cappello in mano”.
I protagonisti di questa storia di miseria giovanile sono dipinti a tratti coloratissimi, forse un po’ troppo rapidi, ma sufficienti a far respirare al lettore l’atmosfera in cui si muovono, un’atmosfera fatta di cattivi odori, pessimi umori e sottilissime speranze. La strada è fame e inferno, ma anche libertà, possibilità. C’è il calore dell’alcool, il sollievo delle sigarette. C’è la banda, che protegge e vendica, che ha le sue regole e la sua onestà, che crea senso di appartenenza. C’è il sesso delle prostitute, o delle “morose” che accompagnano le bande. C’è l’arte di arrangiarsi, spesso rubando.
Una via d’uscita? Una possibilità di salvezza? Esiste, ma passa fuori dai riformatori, attraverso l’amicizia, la solidarietà tra bambini persi. Secondo l’autore, è una possibilità troppo stretta, e rischiosa. Soltanto due personaggi riescono a imboccare la strada fuori dal crimine, ingegnandosi in un mestiere irregolare ma onesto, e sfuggendo con altrettanto ingegno alle trappole della burocrazia.
Un romanzo che è anche un documentario, ben fatto. Scomodissimo, ai suoi tempi. Non stupisce, che i nazisti l’abbiano mandato al rogo insieme a tanta letteratura scomoda: un motivo, uno in più, per leggerlo, e apprezzarlo.