Forse Esther
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Top 50 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
La memoria unica prova dell’esistenza del passato
“Forse Esther” è il primo romanzo di Katja Petrowskaja, anche se in realtà non si tratta proprio di un romanzo, quanto piuttosto di una ricerca nel passato, di una raccolta di testimonianze e di episodi riguardanti la vita degli antenati della scrittrice. Un lavoro nato dall’esigenza di ricercare le proprie radici per guardare al futuro con consapevolezza e coscienza ed evitare di vivere affannosamente un presente limitato nel tempo e nello spazio.
“Credo si chiamasse Esther, disse mio padre. Si, forse Esther. Avevo due nonne e una si chiamava Esther, proprio così.” Da qui il titolo dell’opera, che, non a caso, contiene in sé tutta l’importanza di recuperare e conservare la memoria, perché la storia non finisca nel nulla dell’oblio.
Difficile quanto doloroso ripercorrere gli anni delle persecuzioni, dei ghetti, dei lager e dei gulag per la Petrowskaja, esempio di quel complesso intreccio di culture, ebraica, tedesca, russa e polacca che si creò nelle zone dell’Europa centro-orientale, come ci è stato ampiamente descritto anche dai fratelli Singer.
Nella ricostruzione degli eventi, spiccano energiche figure di donne, come la nonna Rosa, che insegna il linguaggio dei segni ai bambini sordomuti e ne salva duecento dall’assedio di Leningrado. La lingua e il linguaggio sono elementi centrali nell’opera della Petrowskaja. Lei stessa sceglie di scrivere in tedesco, la lingua del nemico, che diviene “la bacchetta del rabdomante”, il mezzo per ripercorrere il passato e stabilire la verità. E da sempre la conoscenza della lingua di un popolo permette di penetrarne e comprenderne non solo gli usi, ma anche i sentimenti, la mente, il cuore. “Il mio tedesco, verità e illusione, la lingua del nemico, era una via di fuga, una seconda vita, un amore che non passa perché mai lo si conquista, offerta e dote, come se avessi restituito a un uccellino la libertà.”
Una scelta tanto più difficile per un’ebrea sovietica, la cui famiglia si trovò a essere perseguitata su più fronti. Il viaggio nel passato inizia attraverso la Polonia, nell’89, nel momento in cui la Petrowskaja non aveva padronanza di nessuna lingua, né del polacco, né dello yiddish né dell’ebraico e neanche della lingua dei segni: “l’intuito sostituiva la conoscenza. La Polonia era sorda, io ero muta.”
Varcare il cancello, con la sua assurda quanto cinica scritta, è esperienza sconvolgente, al punto da non sapere più, per lungo tempo, quale valore e quale collocazione dare al concetto stesso di lavoro.
Ricostruire il passato per la Petrowskaja, significa passare ancora attraverso la conoscenza degli atti del processo a Judas Stern, colpevole di avere attentato alla vita di un diplomatico tedesco e per questo fucilato, significa risalire lungo la forra di Babij Jar dove vennero trucidate migliaia e migliaia di persone, dove trovarono la morte anche la bisnonna Anna e la prozia Ljilja. Camminare in quei luoghi vuol dire calpestare lapidi, camminare sugli orrori del passato, che si è voluto seppellire perché non ve ne fosse testimonianza.
Con questo traumatico percorso la Petrowskaja giunge a ricostruire un’unitarietà familiare, a dare un senso a episodi fino a quel momento isolati e privi di un nesso logico, a ricreare la storia della sua famiglia, ricomponendo nello stesso tempo le varie parti del suo essere così composito. Il suo è un vero, doloroso tentativo di ritrovare quell’identità di cui la storia l’aveva arbitrariamente privata.