Essere senza destino
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Cercare la felicità, sempre
In questo libro c'è l'olocausto, ci sono i lager, c'è il Male, quello con la M maiuscola che è stato tatuato indelebilmente nella storia della disumanità.
Ma più di ogni altra cosa, in queste pagine, c'è lo sguardo pulito, innocente, scevro da ogni pensiero negativo, di un ragazzo ebreo e ungherese di 15 anni che sembra non voler vedere, non voler capire...
Lui cerca di trovare sempre una giustificazione razionale per tutto quello che gli accade, quando si ritrova improvvisamente, senza nessuna spiegazione, sottratto alla sua quotidianità e spedito in Germania ne è quasi contento, pervaso da quell'eccitazione per il nuovo.
Le regole, il "sistema" dei campi di concentramento gli appaiono, almeno inizialmente, ragionevoli.
E i soldati tedeschi non poi così cattivi...
Lui è riuscito a vivere con "naturalezza" ciò che naturale non è stato per niente, come se fosse normale "essere privati del proprio destino".
Un passo alla volta, si è abituato a tutto... alla fame che dilania, al lavoro pesante che strema, al freddo che taglia, alle percosse gratuite, al sonno che non dà tregua, e questo procedere un minuto alla volta gli ha impedito di percepire l'orrore, pur portandone i segni sul corpo.
Scabbia, flemmone al ginocchio, pidocchi, denutrizione: il suo corpo sano di adolescente non gli appartiene più, la sua energia iniziale si è trasformata pian piano in pus, e sarà proprio questo, alla fine, a salvarlo.
La mancanza di percezione dell'orrore da parte di chi, come lui, ha vissuto Auschwitz, Buchenwald e Zeitz, è il vero orrore!
Fa rabbrividire come si possa anche solo pensare di aver avuto attimi di felicità, là dentro, nonostante tutto.
Eppure:
"Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile.
Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti, c'era qualcosa che assomigliava alla felicità.
Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli "orrori": sebbene per me, forse, proprio questa sia l'esperienza più memorabile.
Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.
Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l'avrò dimenticata."
Tutto questo ci dà la misura di come la mente umana, e il suo straordinario meccanismo, riesca a mantenere la distanza, ad andare "in protezione" per permettere, a chi ha vissuto l'invivibile, di sopravvivere.
Le ultime (bellissime) pagine ci dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, come noi non potremo mai comprendere davvero. Mai.
(Kertész ha impiegato 13 anni per scrivere questo libro, che non a caso gli è valso il Premio Nobel).
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IL DESTINO IN UN LAGER
Sulle esperienze vissute dagli ebrei in un campo di concentramento la pietra miliare in letteratura è stato certamente “Se questo è un uomo” di Primo Levi: secco, dettagliato, antiretorico e impietoso. “Essere senza destino” introduce una novità nel genere concentrazionario: il protagonista è un ragazzo di quindici anni, quindi un essere immaturo, non ancora pienamente formato, in crescita. La cosa è molto interessante dal punto di vista narrativo, in quanto permette al lettore di verificare cosa succede alla mente umana, specie in una mente ancora da plasmare, priva di esperienze, in un certo senso vergine, quando viene esposta alle atrocità più mostruose e inimmaginabili. L’autore fin dalle prime righe introduce il protagonista mettendo in rilievo la sua inadeguatezza ad affrontare le insolite circostanze che si ritrova suo malgrado a vivere (“Ma forse mi sbaglio… forse non ricordo bene… Non sapevo cosa rispondere e così non ho detto niente… A dire il vero, io non ero riuscito a seguire bene il suo ragionamento… Non so esattamente. Non ricordo nemmeno le circostanze”, e così via). Gyurka vive il precipitare degli eventi (il lavoro obbligatorio alla Shell, la deportazione in Germania) senza minimamente cogliere la gravità delle conseguenze: trova esagerato che la sua vicina di casa creda che la gente la odi in quanto ebrea, anzi non crede che esista neppure un’identità ebrea che non sia quella assegnata dal caso alla nascita; il lavoro cui è costretto insieme ad altri ragazzi ebrei è “persino divertente”; l’episodio di quando viene fatto scendere dall’autobus mentre si sta recando in fabbrica è “davvero singolare”; e quando viene rastrellato insieme a centinaia di altri ebrei e condotto in una caserma gli viene quasi da ridere, per l’impressione di trovarsi in una commedia dell’assurdo senza conoscere la parte che deve recitare. Persino l’arrivo ad Auschwitz è accompagnato da espressioni di stolida soddisfazione: le SS non sembrano “per niente pericolosi”; hanno sì in mano una frusta, “ma, dopo tutto, non avevo visto farne alcun uso”; il medico della selezione ispira fiducia “perché aveva un aspetto gradevole, la faccia lunga e simpatica, … occhi azzurri…. dallo sguardo benevolo; ebbi la vaga sensazione di piacergli”; il passaggio della selezione genera esultanza; “era tutto in movimento, tutto funzionava, ciascuno era al proprio posto e faceva il proprio dovere, tutto si svolgeva in modo preciso, sereno, filava via liscio”; ci si reca alla doccia “chiacchierando e ridendo”; “quello che vidi dei dintorni nella breve strada percorsa tutto sommato mi lasciò soddisfatto”. La conoscenza degli orrori che lo attendono nei vari lager frequentati è graduale ed implacabile: è un piano inclinato che, passo dopo passo, conduce il ragazzo a una progressiva disumanizzazione, a un costante annientamento di sé, senza che quasi ci sia un vero momento di discontinuità che possa innescare una autentica presa di coscienza. Solo voltandosi indietro è possibile rendersi conto che “esistono cose che fino ad allora io non avevo compreso e che difficilmente avrei potuto credere”. Tutto avviene in maniera insensata, cioè senza che sia possibile dare un senso all’impressionante cambiamento che la fame, la dissenteria, le percosse, il sonno, il freddo, i pidocchi, le piaghe provocano nel fisico e nello spirito di Gyurka e dei suoi compagni, fino a renderli estranei gli uni agli altri (concentrati solo in una disperata lotta per la sopravvivenza, dove spesso “mors tua vita mea” – vedi ad esempio l’episodio dove il protagonista non rivela la morte del vicino di branda pur di potersi accaparrare per qualche giorno una doppia porzione di zuppa) e persino a se stessi (l’estraneità del proprio corpo, troppo rapidamente cambiato per essere ancora riconoscibile). L’arbitrio, le coincidenze, il caos governano gli eventi, la vita è letteralmente appesa a un filo, e Gyurka si salva solo per circostanze fortuite (una malattia che lo costringe in un’infermeria del lager fino all’arrivo degli Alleati). Al suo ritorno a Budapest, la città natale, un anno dopo la sua partenza, Gyurka è un ragazzo invecchiato, quasi saggio: senza rendersene conto ha subito un’evoluzione impressionante. La sua ossessiva ricerca di un senso, di un destino alla propria vita lo rende estraneo alla persone che sono rimaste e che non lo capiscono, vedendo solo le immani conseguenze di una tragedia di proporzioni bibliche, e non i piccoli, impercettibili passi che l’hanno resa possibile, rendendoci tutti corresponsabili. Il suo futuro è un’aporia, un ossimoro: proseguire a tutti i costi una vita “che non è proseguibile”, e guardare al lager quasi con nostalgia, cercando di riempire con un significato quell’enorme buco nero che altrimenti minaccerebbe di trasformarlo in un “essere senza destino”.
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MA è tutto vero?
All'inizio il libro è la solita agghiacciante testimonianza di un reduce dai campi di sterminio della Germania nazista. Il protagonista- il romanzo è autobiografico- è un ragazzino ebreo ungherese di 14 anni. Mentre sta andando a lavorare come al solito con altri coetanei ebrei, viene fatto scendere dall'autobus dalla polizia ungherese assieme agli altri ragazzini ebrei. Il poliziotto sembra avere simpatia per loro e tutto sembra un gioco. Mentre sono in stato di fermo, gli viene offerto molto gentilemente e come opportunità di andare volontari in Germania a fare un lavoro molto ben retribuito. In molti partono sperando in quel "trattamento migliore" promesso. Il treno fa prima tappa ad Aushwilz dove persone poco raccomandabili con vestito a righe, con facce adunche da ebrei, in una lingua strana fanno capire ai ragazzini (ce ne sono parecchi) che non devono mai dire di avere 15 o peggio 14 anni ma almeno 16. Il protagonista ne dichiara 16 e così può proseguire la sua permanenza ad Aushwitz e poi in altri campi. Nel libro c'è un confronto tra campi per abitudini di sterminio e razioni alimentari. Fin qui, abbiamo il solito toccante racconto fatto anche da altri. All'inizio il lettore vede le cose con gli occhi del ragazzino che sono un po' ottusi e faticano a capire e vedere il male intorno a sè. Poi, fame e fatica e la persucuzione di un carceriere hanno la meglio, il ragazzo si lascia andare, perde la voglia di vivere e la forza fisica e la malattia ha il sopravvento. Da qui inizia una testimonianza incredibile, surreale eppure, credo, reale:l'esperienza della solidarietà e della bontà nel lager. Solidarietà che viene non solo dai compagni, il che in quelle condizioni di vita non doveva essere comune, ma da parte di personale del lager come medici, ad esempio, tedeschi.
E comunque la presenza in un campo di un'oasi con letti veri e trapunte colorate ha dell'incredibile. Come il fatto che gente che ha fatto un credo politico dello sterminio di massa poi abbia permesso ad alcuni dei suoi di adoperarsi per curare chi andava sterminato. Insomma quelle imbottite colorate che compaiono nel lager su letti veri sono come delle farfalle in volo su una distesa di neve. Ancora non mi capacito di questo libro. Comunque credo proprio che la storia sia vera. Anche il finale mi è piaciuto per il senso di orgoglio e la consapevolezza che la discesa all'inferno dei lager ha dato, a chi l'ha vissuta, una possibilità di comprensione del reale che manca a tutti gli altri. Questa capacità di penetrazione profonda e ampia contrasta con la visione "debole" del ragazzino dell'inizio del romanzo quando lui sembrava non capire nulla del mondo e del male che aveva intorno a sè.
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La rabbia.
Lessi questo libro prima della vittoria da parte di Kertesz del Premio Nobel.
Feci bene.
Non ho gradito molto la sua trasposizione cinematografica: poco fedele al testo, incentrata più che altro sulla giovane età del protagonista, a tratti melodrammatica.
Il testo è altra cosa.
Lo stile di Kertesz si insinua nel lager come un rasoio affilatissimo e ne coglie le sfumature più profonde come da una lente bifocale.
Un esempio: "Ad un certo momento il soldato tedesco vide il rabbino passare e gli sparò. Quello morì...è evidente, se ti metti davanti ad un proiettile muori, è chiaro".
Tutto il fuoco della metascrittura è vagliato attraverso una spersonalizzazione quasi cruda e materica...come un'opera di Bacon.
"Attraverso il filo spinato c'è la corrente elettrica...ovvio, altrimenti tutti quanti prendono una cesoia e ci passano"...L'ovvietà della freddezza e della disumanizzazione.
Il ritorno a Buda del protagonista accende la rabbia nelle vene di un interrogativo antico, ormai: quella gente che continuava a vivere respirava, amava, cagava e dormiva mentre ad Auschwitz ad ogni secondo si rischiava di morire.
Non una protesta, nulla.
Per chi protestare?
Per cosa?
A tutti andava bene così.
E' un libro speciale.
Quello che si determina come capolavoro.