Chiamalo sonno
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QUANTO E' DIFFICILE CRESCERE NELLA "TERRA DORATA"
“Lei si strinse nelle spalle, ... «E’ sempre così, con gli anni. Ogni nuovo anno ti mostra le due mani a questo modo…», distese davanti a sé le mani chiuse. «Ecco, scegli!». E le aprì. «E sono entrambe vuote. Si fa quel che si può. Ma la cosa amara è lottare… e non salvare nessuno tranne noi stessi».
“Chiamalo sonno” non è un bildungsroman, cioè un romanzo di formazione, e neppure, a rigor di logica, un affresco storico dell’America di inizio ‘900, né tantomeno un classico dramma familiare di ambientazione proletaria. O meglio, “Chiamalo sonno” è sì tutto questo, ma nel contempo è molte altre cose ancora (è il tipico caso, artisticamente parlando, in cui il totale risulta maggiore della sommatoria delle parti), ciò che lo rende un unicum nella storia della letteratura del Novecento. La sua caratteristica più evidente e rimarchevole è che tutto quanto avviene nel romanzo viene filtrato attraverso il punto di vista del piccolo protagonista, David Schearl. Henry Roth ha una straordinaria capacità di immergersi nell’universo di David, di immedesimarsi totalmente nei pensieri, nelle fantasie, nei sogni e nelle paure di un bimbo di sei anni, di guardare il mondo - se così si può dire – ad altezza di fanciullo, calandosi camaleonticamente in un’ottica infantile, per cui una nevicata, una commissione, una visita o un funerale sono vissuti con emozioni inimmaginabili da un adulto. Questa inusuale prospettiva dà al romanzo, oltre a una forte impressione di verità psicologica, anche una notevole spontaneità e freschezza, perché tutto ciò che David fa è nuovo, tutto quello che egli vede lo vede per la prima volta, le sue considerazioni non sono ancora contaminate dall’esperienza. Piccoli episodi, apparentemente innocui, come il gioco proibito con Annie o il racconto dei topi diventano per lui degli incubi spaventosi, mentre perdersi per le strade di New York o assistere a un’esplosione di violenza da parte del padre sono dei veri e propri traumi che (possiamo facilmente immaginarlo) segneranno per tutta la vita il suo subcosciente.
Nel corso del libro, David cresce, passando dai sei agli otto anni. Contemporaneamente assistiamo, oltre al naturale cambiamento dei pensieri, dei desideri e delle esigenze del piccolo protagonista, anche a una apertura del romanzo. Mentre all’inizio esso era quasi tutto racchiuso tra le quattro mura domestiche, pian piano, con la maggiore indipendenza, anche affettiva, di David, inizia a scendere nelle strade e dà modo al lettore di respirare l’aria pittoresca e variopinta della New York ebraica. Il romanzo, se così si può dire, cresce con David, e se prima gli unici personaggi al di fuori della cerchia familiare erano Luter, Yussie e Annie, nei capitoli successivi entrano in scena la zia Bertha, il marito e le figliastre, i ragazzi del heder e tutta una vastissima umanità che, con le diverse usanze religiose, la mescolanza di lingue (yiddish, polacco, tedesco, italiano, ecc.) e la varietà di tipi e caratteri, costituisce una inesauribile fonte di meraviglia narrativa. Ovviamente, i personaggi che emergono su tutti gli altri sono quelli dei due genitori di David. La madre, col suo affetto e le sue premure, crea uno splendido legame di intimità col figlio che, soprattutto all’inizio (vuoi per le difficoltà linguistiche di lei vuoi per la scarsa autonomia di lui), sembra voler escludere il resto del mondo. Tra le sue braccia (“la valle sicura dei seni”) David trova sempre un riparo dalle amarezze e dalle avversità del mondo, e basta che sul volto della madre passino fuggevoli ombre di rassegnazione e di contrarietà per trasmettere al figlio, in un rapporto empatico nel quale Freud andrebbe a nozze, inquietudine e smarrimento. Freud e il complesso di Edipo c’entrano anche con la problematica relazione col padre, uomo frustrato, dispotico e collerico, che si vede poco ma è comunque una presenza terribile e temuta. Le quotidiane riunioni intorno al desco serale sono degli insuperabili esempi di tensione familiare, in cui i silenzi e i gesti forzati del genitore pesano come macigni, capaci di mandare per un nonnulla in frantumi la precaria armonia domestica.
Questo magmatico e sovente caotico materiale narrativo, così colorato, passionale e ricco di umori, è vivificato dallo stile impressionistico di Roth. La sua scrittura è un curioso ibrido tra la prosa classica, in cui è il narratore a raccontare in terza persona gli avvenimenti, e lo stream of consciousness joyciano, nel quale i pensieri di David vengono registrati in tempo reale, senza mediazioni di sorta, nel loro sconnesso e disarticolato fluire. David è sempre in scena, recepisce tutto ciò che gli succede intorno e - da bambino qual è – interpreta a suo modo gli eventi (il segreto giovanile della mamma, i giochi proibiti di Leo e della cugina, il racconto biblico di Isaia e dell’angelo), spesso deformandoli, ingrandendoli o mistificandoli con la sua fertile e ingenua immaginazione. Accade quindi che il lettore sappia come siano andate realmente le cose (riuscendo ad esempio a capire facilmente il significato della frammentaria conversazione tra Genya e la zia Bertha) e, contemporaneamente, come le stesse cose vengano interpretate dalla candida mente del protagonista, in un continuo e affascinante oscillare tra oggettivo e soggettivo. Solo due volte l’autore rinuncia alla presenza in prima persona di David. La prima è quando il romanzo indugia nel seguire il rabbino, zia Bertha e Nathan mentre, ognuno per suo conto e con una motivazione diversa, si recano alla volta della casa di David per parlare coi suoi genitori; la seconda quando racconta in montaggio alternato, adottando i punti di vista dei tanti personaggi che si trovano per caso in quei paraggi, i minuti che precedono l’incidente sulla rotaia del tranvai. Mentre nel primo caso la costruzione è tutto sommato tradizionale, tesa a far convergere gli avvenimenti verso un nucleo drammatico al fine di farlo reagire ed esplodere, nel secondo c’è l’adozione di un ardito sperimentalismo linguistico, in cui i punti di vista si sovrappongono, si accavallano, anche a costo di interrompere le frasi o addirittura a spezzare a metà le parole per dar conto della simultaneità di azioni e pensieri, in un andamento centripeto sempre più rapido e concitato. Classicità e sperimentalismo sono quindi i due poli all’interno dei quali si muove l’opera di Roth. Mi sembra un motivo sufficiente per considerare “Chiamalo sonno” un fondamentale punto di convergenza delle principali tendenze della letteratura del Novecento. Se l’importanza letteraria di Roth non può, come si è visto, essere disconosciuta, da lettore ho trovato comunque molti altri, più immediati, motivi di interesse: il piacere di una narrazione fluente ed ispirata, il sottile umorismo di stampo ebraico e, non ultimo, il fatto di avermi ricordato una volta di più che l’infanzia è, tra tutte le età dell’uomo, la più bella ma anche la più terribile e dolorosa.