Barbablù
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CROCIFIGGERSI PER I PROPRI ERRORI
Kurt Vonnegut è un autore che si distingue sempre per il suo stile pregno di una sottile ironia, che riesce sempre in un modo o nell’altro a inserire nei suoi romanzi. In questo caso ci pensa il nostro protagonista, Rabo Karabekian, a portare l’ironia dell’autore all’interno di questo romanzo: “Barbablù”. Innanzitutto bisogna chiarire il titolo di questo romanzo: fa riferimento alla storia di Barbablù, uomo che ha avuto diverse mogli e che, sulle orme del Dio dell’Antico Testamento, non vieta a loro nulla se non una cosa apparentemente irrilevante: varcare la soglia di una precisa stanza della casa. Come gli Adamo ed Eva dell’Eden, finiranno tutte per caderci. Anche Rabo Karabekian ha la sua “stanza segreta”, consistente in un vecchio patataio nel quale pare racchiuda il suo più grande segreto, il commiato al mondo di un uomo che per tutta la sua vita ha sempre guardato alla grandezza da lontano, privo a detta degli altri ma anche di sé stesso di quella scintilla che sarebbe stata necessaria a renderlo grande, uno di quegli artisti che si ricordano nei secoli dei secoli.
“Barbablù” non è altro che la biografia dell’uomo raccontata dallo stesso Karabekian, in cui passato e futuro si alternano egregiamente senza mai confondere il lettore. Ciò che traspare è proprio la tendenza del protagonista a sminuirsi; a credere di non essere degno di nota, di essere un ottimo imitatore, quasi un fotografo della realtà, incapace però di mettere trasporre sulla tela quell’elemento mistico che fa di un buon imitatore un grande pittore. Ecco perché egli vivrà, seppur ben integrato nella cerchia dei grandi artisti impressionisti americani della sua epoca, sempre defilato: più un protettore che un artista, più un mecenate che in ogni modo cerca di sostenere i suoi compagni e che, alla fine, ne sarà premiato con una collezione di quadri che finiranno per valere una fortuna. Rabo Karabekian, infatti, vivrà negli agi; agi di cui tuttavia non saprà mai che farsene essendo venuto meno quel sogno che lui non formula mai esplicitamente, che sminuisce, ma che in fondo il lettore percepisce essere un qualcosa il cui mancato raggiungimento lo tormenta. Un tormento che lui prova a celare con forte autoironia a volte anche un po’ crudele, forse unico mezzo che ha trovato per non soccombere a questa frustrazione, a questo fallimento. Questo atteggiamento è “cosa da riflettere”: come reagiremmo, infatti, se uno dei nostri sogni si rivelasse troppo grande, per noi? Come reagiremmo? Ci dispereremmo o, come Rabo Karabekian, troveremmo un modo perché questo pensiero non ci tormenti tanto da farci soccombere?
Quello che il nostro novello Barbablù cela nel suo patataio rappresenta la sua rivalsa contro le ingiurie del mondo e di sé stesso, un qualcosa che ha finito per essere travolto dallo stesso giudizio inclemente che ha travolto tutto il resto della vita del protagonista; un qualcosa che avrebbe potuto mostrare agli occhi del mondo la rivincita di un uomo bistrattato per i suoi errori, ben prima della sua morte. Forse a volte bisognerebbe, indipendente da quanti errori gravi o meno si siano compiuti nella vita, cercare di essere un po’ meno duri con sé stessi: non sia mai che anche noi, novelli Barbablù, celassimo qualcosa di meraviglioso agli occhi del mondo solo per codardia.
"E che cos'è, Rabo, la letteratura, se non un bollettino parrocchiale su faccende riguardanti alcune molecole, di nessuna importanza per nessuno nell'universo, tranne che per poche molecole affette dalla malattia chiamata pensiero?"