Babij Jar
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NON SI PUÒ INGANNARE LA STORIA
“Nonno”, domandai “è qui che hanno sparato agli ebrei o più avanti?”
Il vecchio si fermò, mi squadrò dalla testa ai piedi e disse:
“E di russi quanti ne hanno ammazzati qui, e di ucraini, e di ogni nazione?”
Babij Jar è un burrone, una gola di montagna nei pressi di Kiev, in Ucraina, dove tra il 1941 e il 1942 sono stati compiuti i più efferati, disumani, irrazionali, vergognosi crimini contro l’umanità. Se ti portavano a Babij Jar, eri sicuro che avresti perso la vita. All’inizio venivano fatti cadere giù di fila, a colpi di fucile, solo gli ebrei, ma poi vennero uccisi tutti, russi, ucraini, polacchi, di ogni nazione, perché sospetti di partigianeria o anche per sola noia, per il semplice piacere di uccidere.
Questo massacro è il focus del romanzo-documento di Anatolij Kuznecov, oltre 450 pagine di crudeltà e brutalità , edito integralmente, senza censure, da Adelphi nel 2019.
Nell’introduzione l’autore racconta la travagliata storia editoriale del suo documento nell’ex URSS: nel 1965, quando si decise a far conoscere al mondo il massacro di Babij Jar, i redattori di Junost’ gli restituirono il manoscritto “inorriditi”, perché la denuncia antisovietica era palese. Kuznecov fu costretto ad operare una serie di tagli, di modifiche, rimaneggiamenti tali da rendere il libro irriconoscibile. “Ho sempre dovuto lottare per ogni frase, mercanteggiare, aggiungere robaccia ideologica”.
Ha sempre dovuto tenere nascosti i manoscritti originali, sotto terra chiusi in barattoli, le pellicole di Babij Jar chiuse in una valigia di ferro, fino a quando nell’estate del 1969 Kuznecov decise di scappare dall’Unione Sovietica e dare alla stampa occidentale i suoi manoscritti senza timore di censure.
“Tutto in questo libro è verità “,
perché gli orrori vanno denunciati, perché le ceneri che coprono il fondo del burrone, quella sabbia divenuta grigia, “battono sul mio cuore”.
L’ autore non ha romanzato niente, ove non ha potuto testimoniare di persona, in quanto ragazzino di 12 anni, all’epoca dei fatti, ha raccolto ciò che hanno vissuto le persone da lui ritenute attendibili. Ha cominciato a scrivere questa testimonianza da ragazzino
“ in un grosso quaderno messo insieme da me, io che ero allora un ragazzino troppo affamato e irrequieto annotai a casa, da tutto ciò che avevo visto o sentito e che sapevo di Babij Jar. (...) per non dimenticare nulla.”
Man mano che l’opera prendeva forma sotto la sua penna, Kuznecov si rese conto che, se avesse dovuto usare il “realismo socialista” come cifra stilistica e ottenere la verità artistica, la sua opera sarebbe divenuta fasulla, piatta ed ignobile. Il realismo socialista ha contribuito ad uccidere in sostanza la letteratura russa, sostiene l’autore sin dalle prima pagine del romanzo.
Si legge la storia familiare del piccolo Anatolij, Tolija per la madre, con la nonna, altruista e fervente cristiana ortodossa, il nonno che ricorda la vita sotto gli zar e la rivoluzione bolscevica e le vicende, documentate con puntuali articoli di giornale (tutti riportati nelle note) che videro come teatro il burrone di Babij Jar e le retate naziste che costringevano a far uscire di casa povera gente che aveva sempre evitato di mostrarsi al pubblico “mi colpì quanta gente malata e infelice ci fosse al mondo”.
Una Kiev dilaniata nel suo cuore prima dalla rivoluzione bolscevica, poi dall’incubo nazista capace di ogni ferocia primordiale contro uomini, donne, anziani e bambini.
Un lungo e veritiero racconto, crudo e spietato, alternato a brevi considerazioni dell’autore al termine di ogni parte del libro, in tutto tre. Illuminanti ed acute le sue considerazioni sulla civiltà, su quello che lui chiama umanesimo che dovrebbe incarnare i valori più alti dell’uomo, la cultura ridotta al fumo di libri bruciati che non avrebbero saputo dare una risposta alla domanda “perché questo?”:
“Fra le due forme di sadismo non c’è una differenza di principio. Nell’«umanesimo tedesco» di Hitler c’erano più inventiva e crudeltà fanatica, ma nelle camere a gas e nei forni crematori morivano cittadini di altre nazioni e di paesi conquistati. L’«umanesimo socialista» di Stalin non si spinse a immaginare i forni crematori, ma in compenso annientava i propri connazionali. In tali specificità sta tutta la differenza; non si sa che cosa sia peggio”.
Ogni forma di umanesimo ha il suo proprio assassino, afferma Kuznecov, e quando incontra la credulità delle persone trova terreno fertile per ingigantirsi e distruggere intere civiltà. Quando gli eccidi terminarono e si tornò con difficoltà alla normalità, su Babij Jar calò il silenzio per molti decenni, fino a quando qualcuno non decise che era dovere morale far conoscere al mondo di cosa l’uomo è capace in qualunque momento. Anche civiltà evolute sanno tornare alla vita efferata e selvaggia, in quanto “la scienza non è stata un ostacolo alla barbarie”.
Una lettura non facile a causa della crudeltà e della crudezza di tante scene, ma doverosa, perché la memoria è un monito efficace e un alto dovere civico.