Sotto la falce
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 3
Resilienza
Questo libro, un memoir, è bellissimo. Leggendolo capisco perché altre letture mi sono sembrate così sciape e scialbe. Le pagine brillano di vita e di affetto, è scritto da una persona con un cuore oltre che con un bella testa. Forse davvero ci vuole verità per fare arte o forse è vero che l’arte nasce dalla sofferenza.
Jesmyn racconta la sua vita nel Missisipi, una vita povera, tradita- il padre se n’è andato di casa con una ragazzina, la madre si è ammazzata di lavoro per sfamare i figli. Eppure la sua vita è stata meravigliosa, piena di affetti veri, di calore, di fratelli, di amici, di gente che per motivi culturali oltre che caratteriali ha a cuore gli altri, apre la casa agli altri, un mondo in cui c’è chi ha 14 figli e chi ne cresce qualcuno come se fosse suo. Le cose più false nella vita di Jesmyn sono le sue relazioni con amici bianchi e ricchi. Una vita così bella e calda che Jesmyn non riesce a staccarsene per andare a fare carriera a New York. Una vita dove la persona a lei più vicina e a lei più cara è il fratello Josh. Stranamente, il distacco dalla famiglia, l’emancipazione culturale, porta Jesmyn a riavvicinarsi alla famiglia, a capire che sua madre che si è sacrificata e ha rinunciato alle sue aspirazioni che ha passato la vita a pulire cessi e pavimenti, rappresenta l’esempio più fulgido e il più grande insegnamento ricevuto nella sua intera vita. Un esempio umano di resilienza, di sacrificio e di bontà necessari a costruire qualcosa di buono per sé e per gli altri. Nonostante l’ingiustizia della povertà e della morte giovanissima del fratello,del cugino e dell’amico, il dolore per la loro mancanza rappresenta paradossalmente il segno più evidente di una vita che ha lasciato il segno e che aveva un valore. Perciò è proprio attraverso l’annientamento dell’io, Io non sono niente, che si costruisce un noi così accogliente, tenero, appagante, inclusivo.
E la grande oscurità che sembra incombere sulle vite dei neri del Missisipi è calda e luminosa come un sole d’agosto.
Indicazioni utili
Per affrontare il dolore
«Ma i miei fantasmi, un tempo, sono state persone, e io non posso dimenticarlo. Non posso dimenticarlo quando cammino per le strade di DeLeslie, strade che sembrano ancor più spoglie dopo Katrina. Strade che sembrano ancor più vuote dopo tutte quelle morti, dove invece di sentire i miei amici o mio fratello che ascoltano la musica in macchina nel parco della contea, l’unico suono che sento è il pappagallo di uno dei miei cugini, un pappagallo il cui grido tormentato, un grido simile a quello di un bambino ferito, è tanto forte da riechiggiare per tutto il quartiere da una gabbia così piccola che la cresta tocca la sommità e la coda sfiora il fondo. […] Mi chiedo perché il silenzio sia il suono della nostra rabbia repressa, dei nostri dolori accumulati. Decido che non è giusto, che devo dar voce a questa storia. Te l’ho detto: qui dentro c’è un fantasma, diceva Joshua.»
Jesmyn Ward da sempre ci ha abituato a scritti evocativi e dove i temi della natura e della famiglia erano preponderanti. Rapporti forti, intensi, travagliati. Rapporti fatti di legami anche marci a causa di una serie di vicissitudini affatto semplici da vivere e di un ambiente sociale altrettanto complesso. In “Sotto la falce” non vengono a mancare quei temi ad ella cari ma al contempo si toccano anche aspetti di cruda e dura quotidiana verità. Perché l’opera è prima di tutto un memoir all’interno del quale ella parla della dipartita prematura di suo fratello Joshua e di altri quattro ragazzi. Sono vite accomunate dal colore scuro della pelle ma anche giovani che tra il 2000 e il 2004 hanno visto spazzare via la propria vita a causa di alcol, droga, povertà, razzismo, diseguaglianza, solitudine, indifferenza e chi più ne ha più ne metta.
La Ward focalizza l’attenzione del lettore su quella che è una comunità che resta a sua volta silente in quel grido che non trova forma. E lo stesso vale per la scrittrice che è sopravvissuta a quelle perdite ma che sente il bisogno di tirar fuori il dolore, il rancore, il “covato” in quegli anni. Ed è questo ciò che accade.
Jesmyn si guarda intorno. È una bambina, poi una giovane ragazza, infine una donna adulta. Vede perire tante anime al suo fianco, sente la violenza che aleggia tutta attorno. Quella solitudine, inoltre, estrema che condanna e vincola quelle anime che non riescono a rifuggire dalle tentazioni quali la droga e l’alcol.
Il tutto sino a giungere a quell’ultimo capitolo in cui siamo colpiti da un’altra perdita per Jesmyn: quella del marito a causa della Pandemia.
Ed ecco allora che la scrittura è anche terapeutica e riesce a ricomporre il volto di quel vissuto che chiede consapevolezza e speranza per il divenire. Uno scritto dove il sentimento e l’emozione fuoriescono con tutta la loro forza dirompente. Un libro che fa male e che suscita tante riflessioni e domande a cui è necessario dare risposta.
Indicazioni utili
Dolore e nuova consapevolezza
Un memoir di una vita esposta e condizionata dal proprio status e dal colore della pelle, corrosa dal dolore della perdita, dell’ amato fratello Joshua e di altri quattro ragazzi, tutti neri, tra il 2000 e il 2004, morti di morte violenta senza alcun legame apparente, giovani senza speranza rapiti nella propria disperata essenza, da droga, alcool, povertà, razzismo, diseguaglianza, solitudine, silenzio, disperazione, rassegnazione, casualità.
È la storia di una comunità, una lista crudele che ha ammutolito l’ autrice per molto tempo e un racconto difficile, ambientato in una piccola città del Mississippi, Deslile, in quegli Stati Uniti del Sud in cui da sempre vige una legge non scritta, e i neri vivono un senso di inferiorità e colpevolezza, una condizione di abbandono, isolamento, inferiorità economica, sociale, razziale, una piaga ormai infetta senza alcuna assunzione di responsabilità, pubblica e privata.
Jesmyn Ward è sopravvissuta, in qualche modo, affrancandosi da una terra amata e odiata che le ha tolto tutto, in primis la gioia e la speranza, ma nella quale puntualmente ritorna, attratta dal reiterato dolore della perdita e da quel telefono che negli anni ha continuato a squillare annunciando l’ indicibile, di sguardi malevoli che si posavano sulla sua “ diversità “ e dalla certezza di una colpa, un senso di inadeguatezza, la mancanza di un futuro, eppure in lei è nato un imprecisato desiderio di rivalsa.
Un ‘ autobiografia che srotola la sua giovinezza, una famiglia trascinatasi faticosamente, implosa e sgretolata dall’ inadeguatezza di un padre non padre che rivendica la propria narcisistica essenza e tenuta unita da una madre forte, coraggiosa, onnipresente, esempio da imitare e da trasmettere ai propri figli.
Jesmyn e’ una bambina con un’ etichetta incollata addosso sin dalla nascita, una giocosità frantumata dalla perdita dell’ innocenza, incarcerata all’ interno di mura invisibili e invalicabili, il respiro dell’ odio, l’ abbandono, il sospetto, quel sapore di niente che è la propria vita, precocemente rivolta all’ autodistruzione, come tanti altri.
Ma in lei l’ odio ha generato una nuova speranza, quella forza materializzatasi in un desiderio di rivalsa, di fuga, una costruzione interiore fatta di istruzione e letteratura che spezzasse un futuro già scritto, tra alcool e droga, un luogo della mente che la portasse altrove, dove le parole sono schiette e sincere e vi sia una distinzione tra bene e male, desiderosa di essere l’ eroina della propria vita.
Molti attorno a Jesmyn non ce l’ hanno fatta, giovani vecchi che si sono curati con alcool e droghe, senza speranza e possibilità, disperati, imbevuti di violenza, perseguitati dalla morte, di generazione in generazione sempre la stessa storia, certi di una solitudine estrema, senza nessuno che combatta al loro fianco, nell’ autrice vive il ricordo di tutte queste perdite ma non c’ è salvezza per un dolore siffatto, non è vero che il tempo cancella le ferite, semmai le anestetizza.
Il memoir di Jesmyn Ward, con un toccante capitolo finale in cui l’ autrice ci parla della recente perdita del marito causa pandemia e della nascita del movimento black lives mattter, corredato da una bellissima nota della traduttrice Gaja Cenciarelli che si addentra nella peculiarità del testo e nella propria toccante esperienza traduttiva, un viaggio a ostacoli per ricompone il complesso puzzle dell’ opera da cui per lei è stato difficile staccarsi con un ringraziamento all’ autrice per la difficile coniugazione e identificazione tra bellezza letteraria e umana, si rivela un componimento a più strati.
Esso, dalla rielaborazione del dolore della perdita, in primis del fratello Joshua, morto ammazzato da un “ bianco “ ubriaco che non sarebbe stato accusato della sua morte, è un atto di forza, politico, artistico, d’ amore, una ricostruzione storica, un cuore vivo e pulsante.
Ciò che per i neri d’ America è sempre stato, quella condizione di inferiorità che oggi la pandemia ha ulteriormente legittimato, l’ essere marchiati da una nascita senza speranza, ha subito un radicale cambiamento nel mentre si viveva l’ isolamento della pandemia.
In una situazione di solitudine imposta, piangendo le proprie perdite, l’ autrice ha assistito alla nascita di un movimento di protesta internazionale ( black lives Matter ), un atto di civiltà che ha cambiato le carte in tavola, spezzando definitivamente qualcosa dentro di lei, quell’ atavico senso di inadeguatezza che si era portata dentro per una vita. Oggi una neo consapevolezza, che i neri d’ America non sono più soli, un quotidiano atto di testimonianza dell’ ingiustizia, e della lotta, innumerevoli persone testimoni delle loro battaglie e che prendono posizione al loro fianco.
E allora... “ come sappiamo, l’ ultimo dei nostri cinque sensi ad abbandonarci è l’ udito. Quando una persona è in punto di morte perde la vista, l’ olfatto, il gusto. Il tatto. Dimentica persino chi è. Ma, fino alla fine, riesce a sentire. Io ti sento. Io ti sento. Tu dici: ti amo. Noi ti amiamo. Non c’è ne andremo. Ti sento dire: noi qui “....