Operatori e cose
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Onde, sulla spiaggia arida
Possiamo scegliere due modi per affrontare l’intelligenza tagliente e il tenero disincanto di questo libro di Barbara O’Brien, misterioso pseudonimo di un’autrice di cui non sappiamo nulla, neanche il nome. Possiamo cioè scegliere se accontentarci di un gusto facile e torbido e leggere questo volume come il resoconto miracoloso - dall’interno - di un delirio schizofrenico (cosa che in effetti è), oppure tentare di fare un passo oltre e leggere queste pagine come la storia di un’anima e di una mente che si ricompongono. Barbara O’Brien si sveglia una mattina qualunque vedendo ai piedi del letto tre figure inesistenti e che hanno però la consistenza ineludibile della realtà: tre allucinazioni che saranno il preludio a tre mesi di deliri paranoici che la faranno precipitare in un mondo governato dagli Operatori, uomini che hanno il potere di controllare le menti degli altri esseri umani, le Cose, che non hanno questa capacità. In questo mondo allucinato, che ha però sinistri bagliori della verità del reale, Barbara O’Brien cade e risale, senza alcun tipo di trattamento medico, come per miracolo. Ed è quando finisce il delirio, a metà del libro, che inizia la parte più avvincente: quella dell’analisi introspettiva, della vita che riprende, del mosaico che cerca il proprio spazio. Perché quando la mente torna in possesso di se stessa, svuotata dalla stanchezza della scissione interiore, frustrata dalla sua impossibile possibilità nel mondo, anche il delirio più eccentrico può forse nascondere le tracce di quell’inconscio che nelle sue misteriose vie ci conduce invece alla salvezza. Perché nella cronistoria così accurata di Barbara il confine tra malattia, Es e costrizione sociale sgrana continuamente una certa cosa nell’altra e alla fine della lettura, quando la spiaggia secca e arida della sua mente cosciente torna ad accogliere le onde umide delle emozioni e dei sentimenti, quando cioè la vita si riappropria di se stessa, in tutta la sua interezza, scorgiamo forse i contorni di un male che, faustianamente, da sempre persegue il bene.
La medicina contemporanea forse non classificherebbe quella di Barbara O’Brien come schizofrenia perché per definizione il delirio non ha coscienza di sé: eppure quello che di questo volume resta non è solo la grazia inaspettata della scrittura, il bagliore acuminato del pensiero, ma anche - e soprattutto -la consapevolezza che la malattia mentale è figlia del nostro tempo, del ritmo sincopato del lavoro, dell’alienazione rispetto all’ambiente, della distorsione spazio-temporale delle nostre giornate lavorative. Nelle meticolosa attenzione con cui Barbara di prende cura di se stessa intravvediamo alla fine, come in un darwinismo della malattia, che l’interazione tra geni e ambiente mefitico può davvero produrre l’involuzione della specie. E Barbara ce lo ricorda, col suo volto sfuggente, col suo nome segreto, con l’innocenza intatta della sua spregiudicata trasparenza. Eppure amaramente di lei, alla fine, nulla sappiamo davvero.