La mia patria era un seme di mela
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Recensione della Redazione QLibri
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Non pensare dove non devi.
Dice la nonna dell’autrice alla nipotina.
Devo ammettere che mi sono approcciata a questo libro non per “amore”, ma per mancanza di alternative per me appetibili. Massì, conosciamo un premio Nobel di cui (tanto per cambiare) so poco o nulla. Quando ho avuto il libro tra le mani e mi sono accorta che non era propriamente un romanzo, ma un’intervista, ho arricciato ulteriormente il naso.
Motivo per il quale l’ho lasciato qualche giorno sul comodino, in attesa dell’ispirazione.
Be’, ho fatto male.
Perché una volta cominciata la lettura, la narrazione “prende”. Eccome se prende.
Certo, in più di un’occasione, sarei stata disponibile ad offrire la cena all’intervistatore affinché si levasse dai piedi e lasciasse parlare “a ruota libera” l’autrice, ma devo anche ammettere che non è stato molesto quanto avrebbe potuto essere.
L’autrice, rispondendo alle domande, traccia lunghe campate narrative, nelle quali racconta la sua vita, quella della famiglia, degli amici. Racconta dell’infanzia tutt’altro che bucolica, passata nella sua sperduta e verde valle, della prigionia della madre prima della sua nascita. Di un “potere” esterno, ostile, violento di cui – da bambina – non ha ancora consapevolezza, ma sente opprimente.
Siamo in Romania, dall’immediato dopo guerra fino alla lunga dittatura di Ceausescu.
All’infanzia dell’autrice, seguono adolescenza e la giovinezza, il trasferimento in città, il rifiuto a diventare una spia, le vessazioni, lo straniamento, la “scoperta” della scrittura, la pubblicazione dei libri, i viaggi all’estero, fino all’espatrio.
Ritorna, non poco, Hannah Arendt, in queste pagine con la sua “banalità” del male. Nella stupidità arrogante dei funzionari, nelle tecniche di intimidazione e controllo, nella manipolazione del reale, nello schiacciamento dell’individuo attraverso le estenuanti procedure burocratiche, le file per i generi alimentari più comuni, i “timbri” sui documenti, il tempo perso, il freddo, la fame.
E c’è anche un “non detto” prepotente. Negli interrogatori, nelle false accuse e nelle false risposte alle false accuse. Una realtà fittizia, che tutti riconoscono come tale, ma a cui tutti devono far finta di credere. I funzionari per “prosperare” e perversamente crogiolarsi nel loro potere e i cittadini per provare a strappare un po’ di tempo.
In tutto questo (che non è poco, ma non è neppure molto diverso da altri autori che si sono misurati con queste laceranti realtà), Herta Müller insinua il tema della scrittura e della riflessione linguistica.
L’autrice è nata e vissuta a lungo in Romania, ma è di lingua Tedesca. Quindi pensa (e scrive) in una lingua germanica e si muove in una realtà linguistica di matrice romanza, impastata profondamente con quella slava. Da qui la riflessione, potente, sulle parole, sul lessico e – di conseguenza – sulla scrittura e sulla memoria.
Parole scomposte ed analizzate, parole ritagliate e rese vivide, parole e frasi che costringono a dare una forma e preservano – un poco – dalla paura.
«Scrivere parole nella paura era forse come mangiare le piante, era una fame di parole. Reinventare la vita in una maniera non vera, che non la rifletteva identica, ma molto più esatta. Ed era l’idea che protetti dalle frasi si sapesse un po’ meglio come vivere. Le frasi non mi risparmiavano affatto, ma il lavoro che mi procuravano era per me un sostegno.»
Nel penultimo capitolo (Il mio amico Oskar), la riflessione dolorosa sulle parole è quasi continua, e si tratta (ça va sans dire) del capitolo che ho amato di più; sarà per l’essere linguista o per la scarsa simpatia che ho per i testi che si spacciano per romanzi e sono invece documentari, ma qui non abbiamo “soltanto” la narrazione di un’esperienza straziante, ma la riflessione di uno scrittore sulla medesima e della sua responsabilità nel comunicarla.
Potente ed indimenticabile, davvero.
Inutile dire che mi sono procurata la restante produzione della Müller e l’affronterò quanto prima!
Indicazioni utili
Letteratura e libertà
Il libro-intervista del Nobel per la Letteratura con Angelika Klammer pubblicato nel dicembre del 2014 da Hanser in Germania ,Mein Vaterland war ein Apfelkern (La mia patria era un torsolo di mela), vede ora la pubblicazione in Italia a meno di un anno di distanza ma col titolo leggermente modificato.
È una pubblicazione molto interessante sotto molti punti di vista. In primo luogo funge da lettura propedeutica agli scritti della Müller, permette poi di leggere una biografia che dà voce al microcosmo della minoranza tedesca in Romania e soprattutto smaschera gli orrori della dittatura di Ceausescu , incredibilmente celati, distorti o negati ancora oggi dalla trasformista e rampante borghesia.
La conversazione segue il criterio cronologico per cui si conosce l’autrice bambina, immersa in un villaggio sperduto del Banato rumeno, chiuso e statico da secoli, lacerato dalla storia che lo invade con il peggio di sé: le due guerre, orribile la seconda per l’infausta posizione della minoranza tedesca, la fascistizzazione voluta da tutti, respirata ma sempre negata, la dittatura fascista di Antonescu, l’antisemitismo e i campi di concentramento in Transnistria, il capro espiatorio cercato nella minoranza tedesca, il socialismo, le deportazioni, l’infinita dittatura di Ceausescu.
Alla crescita della bambina abbandonata a se stessa, nata a tre anni di distanza dal rientro della madre dalla deportazione, contraddistinta da una fervente immaginazione e da un disperato animismo, segue il trasferimento in città, lo studio, la giovinezza per giungere quasi repentinamente all’esordio letterario con Bassure, al lavoro di traduttrice e al periodo più buio della sua vita. Gran parte delle domande permettono il racconto delle angherie della Securitate, la descrizione degli stati d’animo di un perseguitato politico e la difficoltà di gestire la notorietà dovuta ai suoi scritti per l’esposizione internazionale che gliene deriva. Su tutto trionfa l’alchimia fra la vita e la parola, il torto e la scrittura, la verità e la letteratura permettendo a questa donna profondamente libera di vivere, sopportare, metabolizzare l’assurdo di una dittatura e della conseguente perdita di libertà. Trionfa il potere della parola investita di un plus metaforico derivato dalle immagini suggerite dai detti e dai modi di dire rumeni, scritti però in tedesco.
Molte domande fanno aperto riferimento alle diverse opere :Il paese delle prugne verdi, L’altalena del respiro,Oggi avrei preferito non incontrarmi e danno la possibilità di approcciarsi alle tematiche trattate e allo stile dell’autrice. Non avendo mai letto una sua opera, personalmente sono rimasta affascinata dalla persona, dalla donna, dal potere immaginifico della sua parola, certamente curiosa e ben disposta verso la sua opera. Leggere questo libro penso possa essere d’aiuto per la contestualizzazione di una scrittura da molti ritenuta né semplice, né piacevole. Ne consiglio indubbiamente la lettura a tutti gli appassionati di biografie, di storia, di letteratura e naturalmente agli estimatori della Müller.