La lingua salvata. Storia di una giovinezza
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Una lingua collante
Elias Canetti, autore Premio Nobel per la Letteratura, decide di mettere nero su bianco la storia della propria vita facendolo nel miglior modo possibile: con un trittico di cui “La lingua salvata” rappresenta il primo capitolo (tant’è che il sottotitolo all’opera è “Storia di una giovinezza”). Scrivere un’autobiografia è sicuramente un’impresa non facile, innanzitutto in quanto occorre rovistare nella propria memoria alla ricerca di quegli “episodi di vita” che fanno la differenza, poi perché il rischio di annoiare il lettore rimane dietro l’angolo.
Canetti supera brillantemente le difficoltà nonostante alcuni capitoli del libro possano effettivamente risultare un minimo noiosi o privi di interesse, perché complessivamente il valore aggiunto risulta notevole. Tanto per l’eleganza e la fluidità della prosa accattivante fin dalla prima pagina con quell’incipit “il mio più lontano ricordo”, quanto per la ricchezza dei contenuti di una vita piuttosto piena di eventi fin dall’infanzia e prima adolescenza. Canetti riesce a fare sentire il lettore parte del proprio percorso di crescita, riesce a condurlo per mano nella casa d’infanzia in Bulgaria, all’interno di una famiglia di origine ebraica (sia da parte materna che paterna) di forte stampo patriarcale nella quale emerge potente ed ingombrante la figura del nonno paterno. Poi a Vienna e Zurigo, dove la famiglia si trasferirà ed il giovane Canetti compirà i propri studi, sullo sfondo di uno dei più importanti eventi storici del XX° secolo, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (quando Vienna era ancora la capitale dell’impero Austro-Ungarico).
Questo primo capitolo della vita dell’autore trasmette l’immagine di un bambino che fin dai primi anni di vita risulta essere fortemente attratto dal mondo delle lettere, dalla scuola, dai libri, dall’apprendimento delle lingue all’interno di una famiglia multietnica. Tra queste la lingua tedesca si colloca al di sopra delle altre, innanzitutto per la sua funzione di collante, quasi a rappresentare un “lessico famigliare” alla maniera della Ginzburg. Dotata di un carico emotivo non indifferente, questa lingua ha il potere di fare vivere per sempre un padre (e marito) morto troppo presto. Attraverso il tedesco il giovane Canetti e la madre riescono a costruire un rapporto profondo, simbiotico addirittura asfissiante e con risvolti quasi “edipici”, comunque necessario ad entrambi per superare lo smarrimento imputabile alla mancanza della figura paterna. Lo stesso Canetti sintetizza bene il concetto con le sue parole:
“Vissi sotto l’influsso della mamma la mia seconda nascita in lingua tedesca, e proprio nel travaglio di quella nascita ebbe origine in me la passione che mi avrebbe legato a entrambe, a quella lingua e a mia madre. Senza questi due elementi, che in fondo erano un’unica e medesima cosa, tutto il corso successivo della mia esistenza resterebbe incomprensibile e privo di significato.
Indicazioni utili
La lingua dell'amore
Primo volume di una monumentale autobiografia iniziata nel 1977 e continuata con “Il frutto del fuoco”, nel 1980 e “Il gioco degli occhi”, nel 1985. Una lettura sicuramente gradevole che ha come sottotitolo “Storia di una giovinezza” e che, per quanto mi riguarda, ha tenuto desta l’ attenzione per i tre quarti mentre ha generato una certa stanchezza nella parte finale; probabilmente perché ho trovato molto avvincenti le situazioni narrate rispetto alla prima, seconda e terza infanzia mentre l’avviarsi dell’autore nella pubertà è stata appesantita dal profilo dello stesso ragazzo narrato. Il volume inizia con i primissimi ricordi di vita, in Bulgaria, in seno a una famiglia di ebrei sefarditi di origine spagnola; una famiglia facoltosa, di commercianti, ben integrata ma con un’identità linguistica precisa e ancorata alla lingua spagnola. Una coppia genitoriale giovane e affiatata che invece parla eleggendo a veicolo linguistico, privilegiato e intimo, il tedesco; un bambino che sente parlare contemporaneamente spagnolo e bulgaro, comprendendoli entrambi fino ai sei anni, e che si incuriosisce all’universo linguistico esclusivo della mamma e del papà. Un periodo della vita, felice, comunitario, integro, che improvvisamente si sgretola e si sfalda a causa, prima, di dissapori interni alla grande famiglia, in particolare per via della rottura tra il padre di Elias e il genitore, il capofamiglia, e poi per via della morte prematura dello stesso papà di Canetti quando ormai la famigliola è emigrata in Inghilterra. Inizia così una vita nuova, caratterizzata dalla condizione di orfano e di fratello maggiore che comporterà al piccolo Elias preoccupazioni, ansie e responsabilità inaudite. È la parte più toccante della narrazione, non interessa un unico blocco ma si dissemina nel resto dell’opera e della vita, lasciando un segno profondo, quello dell’assenza e al tempo stesso del rapporto quasi simbiotico con la madre. Segue poi il resoconto delle tappe di una vita in viaggio; ai due anni trascorsi a Manchester ( 1911-1913) si giustappongono gli anni di Vienna, tra il 1913 e il 1916, e per finire quelli del “paradiso perduto”, in Svizzera, che coprono il restante intervallo fino al 1921. Si tratta di soggiorni lunghi ma il senso di precarietà è latente. Il periodo inglese e quello viennese sono ricchi di aneddoti che permettono di costruire un profilo biografico di tutto interesse; al centro sempre la riflessione costante sull’esposizione linguistica; un esempio fra tutti, il più evidente, è sicuramente il barbaro apprendistato al quale la giovane vedova sottopone il figlio per fargli apprendere la lingua tedesca, ultimo ed estremo ancoraggio all’amato marito. Canetti, poliglotta, scriverà tutte le sue opere in tedesco. Gli anni della crescita corrispondenti alla scolarizzazione sono inizialmente molto interessanti, si entra dentro l’universo privato del percorso di formazione, generosamente anticipato dalle sollecitazioni ricevute in famiglia; emerge netto il profilo di un alunno sui generis, un assettato di sapere che stona perfino con il rigore educativo che pure caratterizzava l’epoca facendolo entrare in conflitto con un universo studentesco comunque eterogeneo e non sempre zelante. Un atteggiamento quasi superbo, il suo, del tutto involontario che solo l’onda antisemita riesce a fargli finalmente percepire. I ricordi legati alla Svizzera sono meno interessanti, forse perché nel frattempo il ragazzo che è lontano dalla madre, ha modo di crearsi una sua autonomia di pensiero e si perde quell’aura eccezionale che aveva caratterizzato le altre età fino a quando la mamma non irrompe prepotentemente a indirizzarlo un’altra volta, lontano dalla favola bella della Svizzera, imponendogli l’ennesimo trasferimento, questa volta in Germania. Sigla Canetti: “il paradiso zurighese era finito, finiti gli unici anni di perfetta felicità”.