La chiave di casa La chiave di casa

La chiave di casa

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Una madre malata che muore lascian­do un vuoto incolmabile, un amante vio­lento ed erotico che non dà tregua e fa di lei una schiava senza volontà, le origini lontane che seducono come sirene. Questi i temi del romanzo d’esordio di Tatiana Salem Levy, un romanzo definito dalla stessa autrice di «auto-fiction». Sì, perché questa è la sua vera storia, la storia di una ragazza nipote di ebrei turchi, nata a Lisbona e poi emigrata a nove mesi in Brasile. Una vita di racconti, di memorie ascoltate, fino al giorno in cui il nonno, prima di morire, le consegna la chiave della sua casa a Smirne, in Tur­chia, dalla quale era partito da ragazzo per emigrare in Brasile in cerca di fortuna. Dandole la chiave dell’antica casa, la esorterà ad andare a ritrovare le sue origini. Un viaggio affascinante quello della pro­tagonista, fatto di ricordi non vissuti che riaffiorano insieme a un presente che continua a perseguitarla ovunque vada, perché questa donna non è una soltan­to, ma molte che a tratti prendono il sopravvento. Ed è sorprendente come il dolore amoroso, esplorato al­l’estre­mo del lirismo e della crudeltà, ritorni sempre a tenderle una mano, come se la inseguisse. E lei che lo fugge, per inseguire una nuova felicità che scoprirà solo alla fine del viaggio, se lo trascina comunque dietro in squarci di pagine di erotismo puro che sono immagini ve­re, indelebili, di una passione che travolge e annichilisce il lettore.



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La chiave di casa 2018-03-22 15:02:46 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Marzo, 2018
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La chiave del proprio sé

Se finora ho letto, purtroppo, pochissimi autori latino-americani di lingua spagnola, non mi era ancora capitato di imbattermi in uno di lingua portoghese. Tatiana Salem Levy, classe 1979, è una scrittrice e traduttrice brasiliana che può però vantare la nascita a Lisbona, “in esilio” come lei scrive, e un’ascendenza turca di origine ebraica. Un nome, il suo, di grande suggestione che, in verità, evoca tutt’altri luoghi rispetto a quello d’oltreoceano dov’è cresciuta.
Proprio queste origini familiari dell’autrice stessa sono al centro de “La chiave di casa”, suo romanzo d’esordio. Un esordio ben felice, a mio giudizio, poiché in quest'opera prima scorre una scrittura già matura, affascinante, a tratti di una profondità di pensiero che lascia interdetti e induce a riflessioni che s’aprono nel cuore tremende come voragini.
È la storia – autobiografica, peraltro – di una giovane donna che intraprende un lungo viaggio tenendo in tasca una chiave affidatale dal nonno con il compito di ritrovare la vecchia casa di famiglia nella città turca di Smirne, da cui lui si era imbarcato molti decenni addietro alla volta del Brasile in cerca di futuro. Sarà un viaggio non soltanto in senso geografico, ma anche (e forse soprattutto) interiore, mentre piani temporali e luoghi diversi s’intrecciano meravigliosamente in una narrazione che si compone, tassello dopo tassello, come un sorprendente puzzle.
Un libro di memorie, smarrimenti, dolore (“Il dolore è in tutto, […] in tutti gli angoli di noi stessi.”), sentimenti e intenso erotismo, a tratti crudele, che lascerà indicibile amarezza e ferite profonde nell’anima della protagonista. In queste pagine trova ampio spazio un dialogo mai interrotto tra madre e figlia, così come risulta appassionante la storia della prima quando, da ragazza, venne arrestata e torturata durante gli anni della dittatura militare in Brasile. Molto affascinante, inoltre, il ritratto che emerge della città di Istanbul, con le sue strade e piazze affollate, le porte, gli hammam e le moschee.
Una bellissima lettura che mi ha particolarmente colpita: certi libri, talvolta, sembrano capitare nella nostra vita all’improvviso ma al momento giusto, svelandoci qualcosa di noi che non avevamo considerato pienamente e dando infine risposte inaspettate alle nostre domande. Cinque stelle e quasi lode!

"[…] sento una voce che inonda la piazza, la città. Una voce che sembra provenire da nessun luogo, da un luogo distante, sconosciuto. Il suono sembra graffiato, malinconico, un vero e proprio lamento. Ho la sensazione di averla già sentita prima, ma anche la certezza di non averla sentita mai. Vedo le persone affrettarsi, correre da un lato all’altro. Deve essere questo, allora, il richiamo alla preghiera.[…] Il canto continua, si prolunga ancora quattro volte, echeggiando in modo inatteso in qualche parte arcaica del mio corpo, qualche memoria che ignoro. La voce – un gemito, un lamento – si espande per tutta la città fino a cessare. Allora, Istanbul sembra morta e sento che c’è in me qualcosa di molto antico che comincia a rinascere.”

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