Elegia americana Elegia americana

Elegia americana

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I nonni di J.D. sono sporchi, poveri e innamorati quando emigrano giovanissimi dalle regioni dei monti Appalachi verso l'Ohio nella speranza di una vita migliore. Ma quel sogno di benessere e riscatto è solo sfiorato, perché prima di diventare uomo il loro nipote lotterà a lungo con la miseria e la violenza domestica: una madre tossicodipendente, patrigni nullafacenti che si susseguono uno dopo l'altro, vicini di casa alcolisti capaci solamente di sopravvivere con i sussidi e lamentarsi del governo, in una regione in cui i tassi di disoccupazione sono sempre più alti e l'abbandono scolastico è alle stelle. Eppure quella che J.D. Vance racconta senza indulgenza ma con un amorevole orgoglio di appartenenza non è l'eccezione ma è la storia, in filigrana, di un Paese intero, di quel proletariato bianco degli Stati Uniti che ha espresso la sua frustrazione portando Donald Trump alla presidenza. "Elegia americana" celebra un'America silenziosa e dà voce a quella classe operaia dei bianchi degli Stati Uniti più profondi che un tempo riempiva le chiese, coltivava le terre e faceva funzionare le industrie. Quel mondo non c'è più, al suo posto solo ruggine e rabbia. E J.D. Vance diventa così il cantore, brutale e appassionato, dell'implosione di un modello, di un'idea. Di un sogno che è stato a lungo anche il nostro.



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Elegia americana 2021-02-28 22:57:58 silvia t
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silvia t Opinione inserita da silvia t    01 Marzo, 2021
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Conosciamo gli Hillbilly

Quest’anno per Natale eravamo in zona rossa, così il gradito regalo di mio fratello è arrivato in ritardo di qualche giorno: era questo titolo che non avevo mai sentito nominare, ma che ho poi saputo essere piuttosto popolare anche in seguito al film omonimo trasmesso da Netflix.

Fin dalle prime pagine ho sviluppato un’ antipatia per il protagonista, complice lo stile autobiografico che sfrutta l’io narrante, tipologia di narrazione che non amo e molto di raro mi appassiona.

La traduzione del titolo, come troppo spesso accade, non ha niente a che vedere con il titolo originale: “Hillbilly elegy; questo titolo rende almeno comprensibile il testo del libro.

La trama, come ho accennato è una sorta di autobiografia con velleità di denuncia sociale: la discriminazione degli americani irlandesi, vista attraverso gli occhi di uno che “ce l’ha fatta”.

La lettura scorre veloce, le immagini si ammassano davanti agli occhi richiamando alla memoria innumerevoli scene di film americani, case fatiscenti, adulti rimasti bambini, che inseguono maniacalmente il sogno americano, trappola dorata che fagocita chiunque non abbia una totale assenza di sensibilità e empatia, riducendolo a rifiuto tossico per poi risputarlo nella realtà capitalistica in cui la colpa inespiabile si chiama fallimento.

Uomini e donne, bambini e ragazzi, intere famiglie si muovono in un sottobosco fatto di povertà, ignoranza, superficialità, un mondo in cui la violenza è così normalizzata da far sembrare le offese un nomigliolo, le botte baci della buonanotte.

Non so se l’autore, J.D. Vance, sia consapevole che raccontando quello spaccato di realtà e sottolineando più volte che “lui ce l’ha fatta nonostante sia un Hillbilly”, dimostra esattamente il contrario: si è solo arreso a ciò che la società americana aveva deciso per lui, incarnare il sogno di altri.

Lettura non del tutto piacevole, ma che presenta più piani di lettura, oltre a quello narrativo che senza dubbio risulta fruibile, c’è quello sociale, che a mio avviso inconsapevolmente Vance riesce a rendere molto interessante: negli Stati Uniti o concorri a fortificare il “sogno americano” oppure vai ad aumentare il numero di coloro che ad esso si contrappongono rendendolo reale, il numero dei falliti e i falliti negli Stati Uniti non hanno la dignità neppure di sognare un altro sogno

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