Vivere stanca
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Vivere, stanca....
La raccolta “Vivere stanca” di Jean-Claude Izzo è un insieme di racconti originariamente pubblicati in opere collettive o riviste e, di poi, racchiusi in questa edizione. Sono storie, quelle narrate, che, seppur inventate, inevitabilmente riportano il lettore a fatti di cronaca autentici, che irrimediabilmente si fanno percepire quali attuali e concrete seppur ormai siano trascorsi molti anni dalla loro ideazione.
In questo breve elaborato, di appena 60/70 pagine, però, ritroviamo integralmente quell’autore che abbiamo imparato a conoscere e ad amare con la trilogia dedicata a Fabio Montale (“Casino Totale”, “Chourmo”, “Solea”), ma anche con “Marinai perduti” e “Il sole dei morenti”. Infatti, seppur sia evidente la contenutezza delle vicende prospettate, rinveniamo in esse tutte le tematiche più care ad uno degli scrittori più apprezzati del filone noir (dalla malinconia, alla cara ed amata Marsiglia, al razzismo soprattutto nei confronti degli arabi, ai marinai, alla solitudine, a quella stanchezza di vivere di cui al titolo, a quella impossibilità di mutare la condizione di appartenenza, a, infine, quei cari ed indimenticabili Fonfon e Honorine).
Indubbia la presenza quella penna diretta, chiara, vellutata capace di dar vita a quel velo di melanconia proprio del marsigliese. Unico difetto? La fugacità dell’opera. Ogni racconto è talmente breve che non se ne è mai sazi, mancando quel qualcosa, quell’evoluzione, quella maturità. Pagina dopo pagina il lettore resta spiazzato, soprattutto dagli epiloghi, (quasi) mai lieti, e come un assetato nel deserto brama ancora quell’acqua capace di soddisfare la sua sete.
«Quella sensazione di essere amata. Di essere, semplicemente. [..] Doveva stordirsi. Soltanto per credere ai sogni» p. 13-14
«E’ che vivere – disse piano, come se continuasse a pensare. – Vivere stanca. Non credi? [..] Di tutti i marinai che aveva conosciuto, nessuno era mai tornato. Tutte le promesse muoiono in mare. E in ogni porto del mondo una Marion aspetta il “suo marinaio”. [..] “Un uomo perduto”, pensò lei. “Una donna perduta. Perdere e perdersi, è questa la vita? Dì, Marion, è così?” [..] “Hai ragione, – balbettò in un singhiozzo. – Vivere stanca.» p. 20-23
«Viveva di speranze, Jeannot. Da sempre. Neppure quando Lulù se l’era squagliata portandosi via la bambina si era disperato. La vita continua, aveva detto. Ma Jannot aveva il bar. Lui, Gerard, non aveva niente. Nemmeno il ricordo di una donna che gli avesse messo le corna» p. 55
«Gérard non era nostalgico. Soltanto triste. E stanco. I sogni della città non combaciavano più con i suoi. Per la prima volta, si sentiva straniero a casa sua. Sui moli. E quindi nella vita. Buttò la sigaretta in acqua, dopo aver tirato una lunga boccata che gli bruciò le dita. Era una bella notte d’autunno, porca puttana! L’odore che saliva dal mare era il più bell’odore che conosceva. E quella sera era particolarmente buono. Un gabbiano passò sopra di lui, gridando. Gérard si tuffò. Non sapeva nuotare. Non aveva mai saputo nuotare.» p. 58
«No, non è la vita. Io non ci credo. Bruno dice che nella vita non dobbiamo accettare niente che sia contro la nostra felicità. Che dobbiamo ribellarci contro la nostra quello che ci ferisce, ci fa male.. Dice così..» p. 64
«Vuotai il bicchiere d’un fiato e mi alzai. Avevo voglia di perdermi in giro per Marsiglia. Nei suoi odori. Negli occhi delle sue donne. La mia città. Sapevo che mi avrebbe sempre dato appuntamento con la felicità fugace di chi è in esilio. L’unica felicità che mi andava bene. Un bel regalo di consolazione» p. 75-76