Una giornata di Ivan Denisovic
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Veleggiamo sulle alte vette della letteratura mond
Grandioso libro denuncia.
La prima immagine della Santa Madre Russia: immense steppe, boschi, la Siberia, le città degli Zar, la bellezza sovrumana delle donne, l'Ermitage, il potere dell'Armata Rossa, le infinte lande, la grandezza dei pittori, l'immensità degli scrittori. Uno Stato scrigno di bellezza e grandezza.
Aleksandr Solženicyn è stato uno degli illuminati personaggi di questo sconfinato paese, voce talmente scomoda da essere esiliato e i suoi libri messi al bando. Proprio per questo la loro potenza una volta pubblicati è stata devastante per tutto un sistema che si reggeva su bugie e promesse di una felicità che avrebbero assaporato solo i morti.
In questo libro, con acume e freddezza, senza compiacimento racconta la tragica esistenza di un carcerato disperso insieme ad altre anime vagabonde in un gulag ai confini del mondo, dove il freddo implacabile porta alla pazzia. E' il giorno incubo che si sussegue ad altri giorni, la cui unica libertà sarà sottoterra o nel sogno.
Scorrendo le pagine si percepisce questo gelo infernale che si insinua sotto pelle al lettore, si intuisce l'aria satura di vento che sferza i volti, spacca la pelle, gela il sangue nelle vene.
Da quanto l'eroe del romanzo si desta all'alba e percepisce che davanti a luci vi sarà l'ennesima infinta giornata dove ci sarà solo sofferenza e desiderio di sprofondare in un abisso pur di sottrarsi a quella tortura infinita.
E' il tempo del disincanto per tutto un sistema che si reggeva sul poco a molti e sul tanto a pochi. Strade, ferrovie, costruzioni, industrie, porti, disboscamenti tutti fatti sulla pelle di malcapitati spediti negli angoli più disabitati di questo stato transcontinentale arrivato a contare 24 fusi orari. Un paese che bacia l'Europa e si estende fino alle impervie coste sopra la Korea.
L'idea germinale a mio avviso l'autore l'ha avuta da un altro testo simbolo di bellezza e grandezza, scritto da quel immenso genio inarrivabile di Dostoevskij: Memorie da una casa dei morti. In cui rievoca il suo confinamento ai lavori forzati, quando la pena di morte che lo attendeva fino a sotto il patibolo era trasformata in confino (episodio che per molti storici, avrebbe causato la follia latente dell'immenso Dostoevskij).
“Possiedi solo ciò che puoi portare con te; conosci le lingue, conosci i paesi, conosci la gente. Lascia che la tua memoria sia la tua sacca da viaggio.” ALEKSANDR ISAEVIC SOLZHENITSYN
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Le anime Morte -Gogol-
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I modi per annientare un uomo sono innumerevoli
La vita dentro un campo di concentramento stalinista raccontata da chi l'ha provata.
L'autore di questo libro, Solzenicyn da laureato in matematica e fisica è diventato un reazionario, condannato per propaganda antisovietica ha trascorso otto anni in un lager. Al suo rilascio è diventato scrittore causandosi non pochi problemi con le sue denunce. Nel 1971 gli è arrivato il premio nobel, ma anche il trasferimento in occidente, visto che l'Unione Sovietica non era più sicura.
Questa breve biografia, per dare maggiore credibilità al contenuto del libro, che sicuramente non è di fantasia. In effetti il primo istinto leggendone le prime righe è pensare che non sia ambientato nella metà del 1900, ma molto più indietro, visto il modo tanto macroscopico in cui sono violati i diritti dei prigionieri.
La vicenda è semplice: dalle cinque del mattino, quando viene suonata la sveglia battendo su un pezzo di binario, seguiamo passo passo Ivan Denisovic. Lo lasceremo solo nel momento in cui alla sera si sarà addormentato riflettendo su quanto sia stata fortunata quella giornata.
Peccato che a noi ritenere fortunato chi vive in quelle condizioni ci sembri poco realistico. Semmai proviamo ammirazione per l'arte di arrangiarsi che si sviluppa tra i prigionieri. Per la solidarietà che va solo a chi se lo merita, al rispetto per chi si comporta correttamente. L'altra faccia della medaglia è la necessità di ricorrere a piccoli espedienti , a qualche piccolo atto di corruzione verso chi conta qualcosa: guardia, caposquadra, detentori del potere quali cuochi o infermieri.
Questo libro non è crudo quanto potrebbe essere. Ci racconta sì delle sofferenze patite, ma non indulge nel descrivere i dolori fisici, o le umiliazioni, quasi le sfiora. Cose che ad un'attenta riflessione sono enormi crudeltà ci sono raccontate come routine, a volte addirittura come colpi di fortuna per aver evitato di peggio.
Il libro è stato scritto nel 1962 e posso pensare che l'autore abbia scelto di non calcare troppo la mano per evitarsi troppi problemi. Una riflessione più amara è che tutto, se ripetuto nel tempo, per quanto possa essere terribile, assume i contorni della normalità.
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Stoicismo magistrale
A metà del secolo scorso, in un lager sovietico, si svolge una regolare giornata, una delle tante, tutte paurosamente uguali, tutte tristemente “normali” per le centinaia di detenuti il cui destino sembra aver fatto a cazzotti con l’illogica legge sovietica secondo cui si finiva in prigione per motivi discutibili.
Ivan Denisovic è al suo ottavo anno di prigionia; ne deve scontare dieci per essere stato così stolto in guerra da essere stato preso prigioniero dai Teseschi.
Questa la sua colpa.
Dieci anni di inferno, alla fine dei quali peraltro non vi è la certezza della fine.
Il tutto in un ambiente angusto, gelido; il termometro è costantemente parecchi gradi sotto lo zero per tutte le 24 ore. L’autore descrive con maestria la pungente sensazione del freddo siberiano attraverso particolari che danno vita alle stesse sensazioni provate dal protagonista.
Eppure per Ivan, ma come per lui lo stesso vale per ogni altro suo compagno, la vita lì dentro ha ormai preso la piega della normalità perché probabilmente la giusta ricetta per sopravvivere a condizioni che ci fanno rabbrividire solo pensandoci è esattamente quella.
Ci si chiede se sia davvero possibile un atteggiamento così stoico di fronte ad un inferno di tali dimensioni eppure il realismo viene da una solida verità, che è sapere che la descrizione degli eventi e della condizione nel lager proviene da un autore che è stato egli stesso imprigionato in uno di quelli, esperienza che è stata cruciale per la sua formazione di scrittore.
L’atmosfera rimane claustrofobica ed opprimente sebbene si è portati facilmente ad apprezzare la superba forza di volontà del protagonista che riesce a gioire di quei pochi elementi e momenti della giornata quali quelli passati in mensa a mangiare la solita ma essenziale brodaglia acquosa.
Ultimo, ma non meno importante motivo per tenersi in vita è lo spirito di gruppo, la solidarietà che accomuna ogni detenuto e che si esprime con piccoli favori e scambi; solo chi riuscirà ad entrare in empatia con il resto del gruppo potrà contare su una ulteriore riserva di ossigeno necessaria ad attendere un nuovo inizio di vita.
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SENZA PIETAS
Come un Verga, privato della sua pietas, Solzenicyn si eclissa dietro l’alienazione dei suoi personaggi: la brutalità del totalitarismo comunista toglie alla letteratura le qualità catartiche e consolatorie, relegandola al ruolo di documentazione neutra di un esistente immobile, senza prospettiva di futuro. La condanna di Ivan Denisovic consisterà infatti nel reiterare fino alla morte la sua giornata nel campo di lavoro staliniano. Ed è un'eternità, dominata dall’ossessione di ripararsi dal freddo, di placare la fame e il bisogno di sonno: ricordi, emozioni e pensieri sono scomparsi dalla mente di Ivan. La soppressione dell’individuo ha depauperato anche lo scrittore che dovrebbe cantarne in qualche modo l’epopea: cosi lo stile non è altro che una registrazione fredda, persino monotona, di momenti insignificanti. Se Ivan è una vittima, il protagonista del terzo racconto “Alla stazione”, il tenente Zotov, “l’uomo sovietico” sta dalla parte dei carnefici: anche qui i diktat dell’ideologia corrodono la coscienza fino a costringerla alla più disumana delle azioni. “La casa di Matrjona”, racconto posto al centro della trilogia, è la ricerca di un’alternativa alla distopia staliniana nella mitezza della vecchia contadina Matrjona, simbolo dell’anima russa, il “Giusto senza il quale non esiste” la terra nostra: il suo destino è segnato però dall’emarginazione, persino le esequie di lei offrono un triste spettacolo della meschinità della natura umana. Il male è più forte del bene, lo dimostra la Storia, ma di entrambi se ne serba memoria, anche se le voci sono “rauche” e “ discordi”