Trilobiti
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Anime dolenti sperse tra i fossili del Paleolitico
Dodici racconti. Dodici storie brevi ambientate in un West Virginia rurale, desolato e depresso. Dodici istantanee che sembrano scattate da un treno in corsa attraverso una campagna abbandonata. Dodici protagonisti, brutti, sporchi (non solo fisicamente, ma, spesso, anche moralmente) e, quando non proprio cattivi, non certo esemplari di bontà. Una collezione di umanità scorata e confusa, priva di ambizioni e di speranze. Questo, in poche battute, è il quadro che fornisce l’antologia “Trilobiti”, opera omnia del giovane scrittore americano Breece D’J Pancake. Con quel cognome (per gli americani il “pancake” è la frittella, dolcificata spesso con sciroppo d’acero, che accompagna con regolarità le loro colazioni iperproteiche) ti aspetteresti ambientazioni briose e zuccherine. Invece, ci viene offerta la visione di un’America inconsueta, un’America dei primi anni ’70, che assomiglia, però, molto a quella post 1929 ispiratrice di John Steinbeck. E, in effetti, il libro ha parecchie affinità con “I pascoli del cielo”, poiché come nel libro di Steinbeck, vi è una sostanziale unicità di luogo (agreste) e di personaggi i quali, seppure diversi, paiono tutti parenti tra di loro, come pare che su tutti sia calato il medesimo grave manto di infelicità, miseria ed oppressione.
I singoli racconti sono caratterizzati da una notevole ricercatezza nello stile che riesce ad adattarsi, di volta in volta, alle varie situazioni descritte. Si passa, così, dal frenetico rincorrersi di pensieri, alla mesta rassegna, in flashback, di una malinconica collezione d’errori passati; dal brutale incalzare di eventi, che fanno da preludio ad un esito tragico, ma solo immaginato, a dolorosi esami di coscienza, in atmosfere brumose. Tutti i racconti sono concentrati in poche ore di vita, ma fotografano intere esistenze, racchiuse in un unico singhiozzo disperato.
In definitiva “Trilobiti” è una lettura interessante e inconsueta; gradevole anche se ogni racconto lascia, infine, un sentore d’amaro in bocca.
Nonostante questa positiva impressione debbo rimarcare come, personalmente, abbia avuto la sensazione che all’opera mancasse qualcosa. Le storie avrebbero meritato più spazio: l’esigua lunghezza dei singoli pezzi lascia il lettore col dubbio se l’autore avrebbe retto su una più lunga distanza; se, in un romanzo, quando si fosse trovata a dover scavare più a fondo su un personaggio o su una situazione, la narrazione sarebbe stata altrettanto incisiva e coerente.
Ma soprattutto resta una perplessità ancor più profonda: le storie colpirebbero così nel profondo l’animo di chi le legge se Pancake, quasi per un destino simile a quello assegnato ai suoi personaggi, non avesse perso la vita a soli ventisette anni, per un colpo di pistola dallo stesso sparato? Quanto dell’apprezzamento per la sua breve opera letteraria è dovuto all’empatia per la sua tragica fine è difficile da valutare, anche perché nelle due prefazioni al libro non si fa nulla per minimizzare la complessità dello scrittore proprio in relazione alla sua prematura morte.
Concludendo, pur con i dubbi sopra detti, “Trilobiti” è un opera stimolante che apre una finestra su uno scrittore che si può definire minore solo per il fatto che egli stesso non si è concesso tempo per potersi esprimere meglio, per maturare e per sviluppare con più ampiezza e compiutezza il suo talento.
Indicazioni utili
Un senso di precarietà randagia.
"…finché una notte ho guardato i miei rispettabili pantaloni pur sempre Woolworth e ho capito che i treni merci non si fermavano più a Rock Camp."
Dodici racconti di uno scrittore che non avevo mai sentito, morto suicida, a 26 anni, nel 1979.
Se non frequentassi assai ben frequentati gruppi di lettura non sarei qui adesso e non avrei potuto leggere la postfazione di Percival Everett, scoperto anche lui di recente (e per fortuna vivo e vegeto, così posso leggere ancora, almeno di lui).
Premessa.
Quando sento parlare di racconti “minimalisti”, a me, viene un po’ l’orticaria.
Un po’ perché non ho simpatia per le “etichette”, in questo caso in particolare, perché mi sono arenata senza nessuna gloria dopo alcune pagine di Carver (certamente per scarsa sensibilità mia e riproverò). Forse era il titolo sbagliato con cui cominciare, però dopo pagine con personaggi anonimi, in cui non succede niente e l’autore non racconta/descrive niente…
Insomma, il mio genere di racconto, per capirsi è “The Duel” di Matheson!
Leggendo Pancake, invece, mi sono davvero appassionata.
È vero che – tecnicamente – succede abbastanza “poco”, ma l’autore ti “caccia” con poche parole dentro una storia, una comunità, un paesaggio; è pur è vero che non hai coordinate, punti di riferimento, e spesso neanche una logica a cui appigliarti, ma vengono raccontati (quasi sempre senza farlo davvero) personaggi e situazioni complessi, in poche pagine, lasciandoti un senso di precarietà randagia che poi è difficile scrollarsi di dosso.
"Sullo scaffale dell’armadio c’è una scatola di vecchie fotografie di remoti parenti dei Gerlock, gente che proviene da un passato talmente lontano che i nomi sono stati dimenticati. Anni prima, gli inverni umidi lo obbligavano a rimanere in casa e lui disponeva in bell’ordine le foto, inventava vite per queste persone, e ne faceva la propria famiglia e storia. Si sentiva parte di ogni viso, di ogni persona, e con l’immaginazione cercava di raggiungere i loro giorni. Adesso sembrano soltanto fotografie, e lui trasporta la scatola al piano di sotto, nel portico."
(…)
"Camminando per il campo, Ottie capisce che la fattoria appartiene a Bus e che lui l’ha bloccata in un tempo dove riesce a vivere ogni giorno. E Ottie li vede insieme per l’ultima volta: un cane che muore e due bambini inutili, fantasmi per sempre, che non possono nemmeno gridare o giocare; anche da morti, combattono per le ossa."
Com’è facile notare, non è agevole recensire questa raccolta.
Ho cercato di lasciarlo fare a Pancake; suggerirei, inoltre, umilmente, di leggere questo autore.
E prendo congedo con una descrizione, che di certo non è minimalista (qualsiasi cosa voglia dire), però vale la pena!
"Nel mattino sbiadito la terra sembrava segnata da cicatrici. Le prime nevi erano già cadute, si erano sciolte e avevano sigillato le colline in una brina pesante che il sole non riusciva ad addolcire. Venti freddi avevano staccato le ultime foglie rimaste sulle querce, avevano lasciato sulle colline una pace grigiobruna che scendeva nella valle da ogni parte."
Ad maiora!