Quello col piede in bocca e altri racconti
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CINQUE RACCONTI DI SAUL BELLOW
Nei cinque racconti di “Quello col piede in bocca” è presente un’ossessione comune, in alcuni evidente fin dal titolo (la novella “Cugini”), in altri più sotterranea e nascosta: si tratta dell’ossessione nei confronti dei rapporti familiari. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il narratore, il professore di musica Shawmut, viene ad esempio truffato dal fratello dopo avergli ingenuamente concesso soldi e fiducia, ed è poi malamente assistito in tribunale dal cognato avvocato, il quale lo consiglia di finire i suoi anni esiliato all’estero come un proscritto. In “Come è andata la vostra giornata?” assistiamo invece al rapporto squilibrato (tanto dal punto di vista anagrafico quanto intellettuale) e dalle complesse connotazioni edipiche (più da padre e figlia, da pigmalione e allieva, che da marito e moglie) tra Victor Vulpy, un celebre intellettuale al crepuscolo, e Katrina, una donna goffa e sensuale di trent’anni più giovane. Ne “Il piatto d’argento”, ancora, il protagonista, Woody Selbst, rievoca l’ambiguo rapporto col padre recentemente scomparso, imbroglione, fedifrago e puttaniere da vivo, eppure amato e rispettato proprio in virtù di un insopprimibile obbligo filiale. Infine, nell’ultimo racconto, i legami con la parentela (i cugini del titolo) vengono visti come vincoli ineludibili, dai quali non è possibile, volenti o no, districarsi, neppure quando essi inducono a violare la propria legge morale.
Insomma, la famiglia per Bellow è un groviglio irrisolto e irrisolvibile di tensioni, pulsioni, conflitti ed emozioni, un microcosmo che, nel suo piccolo, riflette l’alienazione diffusa nella società americana contemporanea, schizofrenicamente scissa tra la sacralità dei diritti individuali di libertà e di tolleranza ed il mito dell’autorealizzazione e del successo da perseguire ad ogni costo. Non è un caso che i personaggi di Bellow sperimentino dentro di loro questo lancinante dualismo, in quanto sono tutti in varia misura caratterizzati dalla prevalenza dell’intelletto sul corpo, della teoria sulla pratica, del sentire sull’agire. Quasi una replica moderna degli inetti a vivere di Svevo, essi vivono come degli “schlemiel” in un paese, come l’America, dove tutto è interesse, potere, denaro, concretezza. Candidi, altruisti e pervasi di autentico amore per l’umanità, nel corso della loro crescita i vari Shawmut, Zetland, Woody e Ijiah, devono tutti fare i conti con la durezza della vita, con l’ipocrisia del mondo e con la cinica spietatezza dei rapporti interpersonali, che li obbligano a fare continui compromessi con le proprie inclinazioni naturali. Il loro senso etico è infatti inquinato da una soggezione di stampo patriarcale al clan, alla famiglia, che costringe per esempio Ijiah ad aiutare il cugino mafioso scrivendo una perorazione al giudice, sua antica conoscenza, o Woody a coprire il furto del padre nella casa della sua benefattrice, salvo poi dover convivere per il resto della vita con l’immaginabile corollario di rimorsi e sensi di colpa. Su un atteggiamento di tipo morale prevale quindi una visione prevalentemente sentimentale delle cose, anche se il continuo razionalizzare e teorizzare su tutto permette loro di frapporre sempre uno schermo, un filtro tra essi e gli avvenimenti negativi che si trovano ad affrontare, riuscendo così in qualche modo a rimanere sempre a galla e sopravvivere.
Ne “L’uomo col piede in bocca” si ritrovano anche diverse altre costanti dell’opera di Bellow, oltre alla famiglia. La prima è l’ebraismo, nelle sue varie connotazioni religiose, familiari, ambientali e persino lessicali, nelle quali tutti i personaggi, anche i meno ortodossi, rimangono invischiati come in una pania. La seconda è il rapporto di amore-odio con Chicago, dal Loop ai suoi tristi quartieri residenziali. La terza è l’incessante e inesausto sforzo dei personaggi, che già avevo riscontrato ad esempio in “Ne muoiono più di crepacuore”, di prendere le misure alla vita, di fare i conti con la decadenza della civiltà, di prepararsi all’appuntamento con la morte. Da qui discende un’atmosfera di quieto pessimismo, di rassegnata solitudine, come nell’immagine di Woody Selbst che, dopo una notte trascorsa a ricordare il suo padre defunto, si ritrova il mattino dopo in una malinconica situazione di silenzio e di vuoto esistenziale. Non ci sono in Bellow grandi tragedie, ma solo piccoli dolori, poco o nulla enfatizzati, emozioni trattenute e passate al vaglio di una acuta sensibilità e di una ragione vivisezionatrice. L’ultima, e forse più negativa, costante che intendo evidenziare è la cerebralità dell’opera bellowiana. Nei suoi racconti e romanzi manca infatti il collante rappresentato da una trama ben identificabile, in quanto Bellow ama soprattutto divagare e trapassare continuamente dal presente ai ricordi, dall’azione ai monologhi interiori. E’ uno stile molto personale e riconoscibile, che, ad essere sinceri, lascia non poco perplessi, nella misura in cui, quando arriva l’ultima pagina, non si sa mai se a prevalere sia il fascino, dovuto a una scrittura indubbiamente colta e fluente, ricca di citazioni, aneddoti e battute finemente umoristiche, oppure l’irritazione per la scarsa importanza attribuita all’intreccio, a volte quasi inesistente e comunque mai tale da imporsi alla memoria del lettore, al punto che, a distanza di tempo, è raro ricordarsi di cosa parlino i suoi libri.