Notte fantastica
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L'Io come relazione
La notte fantastica è quella dell'intuizione cruciale, l'estatica consapevolezza di sé stessi, il riappropriarsi di quell'Io crucciato dai dettami morali di una Vienna romantica e dannata in cui lo smarrimento interiore è il terrore di sé; l'odio abietto e snaturato contro le proprie pulsioni, l'inveterata arrendevolezza ad una ragione imperante che solo il dramma di una guerra immane ha saputo incrinare. La notte fantastica è la certezza psicologica della fragilità umana, la chiara e distinta evidenza del proprio essere relazione. La notte fantastica è il trionfo di Freud, della sua psicanalisi, il recuperare gli abissi del proprio animo, affacciarsi nella voragine della propria terribile e inguaribile mutilazione, per scoprire là dove le tenebre della razionalità sono più dense, il bagliore sfolgorante della propria nobiltà.
Un trionfo, dunque: la sconfitta del razionalismo cartesiano, là dove nemmeno l'appassionato, ma etereo spirito romantico aveva fallito: nasce la psicanalisi, il nucleo della produzione di Zweig, di quella penetranza psicologica in grado di scandagliare l'animo umano con quella protervia superba, leggermente ottusa, ma sublime ed entusiastica che accompagna qualsiasi nuova scoperta. E non c'è trionfo senza eccesso. Ecco che lo stile di Zweig, nella sua innaturale eleganza, nella sua impensabile ed inarrivabile empatia, si dilata in un profluvio di parole, dissolve i contorni testuali, abbatte i dialoghi, il tempo e lo spazio: tutto si uniforma e collassa nella dimensione dell'Io, in quel protrarsi dell'aggettivazione che più che autoreferenziale , più che auto-parodia, è il segno tangibile di un genere al suo esordio, della difficoltà spasmodica, anzi, asmatica, di descrivere una complessità sproporzionata alla forza della scrittura. E se la forza trascinante del testo ne risente, specialmente là dove la narrazione si allunga (come nel secondo racconto della raccolta, Notte fantastica), l'incisività è degno compenso, fintantoché non viene diluita fino all'inverosimile da un vizio che è pero necessario dazio.
La pretesa di voler conoscere ogni essere umano è eccessiva, entusiastica quasi infantile, quasi assurda, ma è l'impeto trascinante, bacchico, voluttuoso (per utilizzare una parola che dà ritmo all'intero testo) che segna il tracollo del perbenismo vittoriano, dell'ipocrisia psicologica, per rivelare la natura dell'uomo, nelle sue più sozze passioni, ma anche nelle sue più nobili virtù.
Narrativamente parlando, volendo cedere il proprio favore all'equilibrio, spicca l'ultimo racconto, Leporella, dove la terza persona è forse garante di un distacco maggiore, di una dimensione più certa e ben descritta; emotivamente parlando colpisce il primo racconto, un essere pervasi da un fuoco ardente di passioni e sensazioni, il dilatare le vene per far defluire un fiume di sangue sull'orlo dell'esplosione; psicologicamente parlando convince il secondo, ma qui la potenza è inficiata dalla lunghezza. Il terzo, infine, sebbene minore, consacra definitivamente l'ostinazione, il testardo perseverare nella propria oscena cocciutaggine.
Quello che Zweig sembra suggerirci è un nuovo paradigma ontologico dell'uomo, o, più semplicemente, un nuova spazio dell'esistere. Non più “penso, dunque esisto”, ma “mi relaziono, dunque esisto”: è nel rapporto con gli altri, nel precipitare fuori da se stessi per contemplare la propria superiore unità, in questo binomio di protendersi e di accogliersi vicendevolmente, che si realizza il trionfo dell'essere umano nella sua totalità. E l'importanza di questa conquista compensa efficacemente difetti compositivi ampiamente colmabili.
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Una scrittura debordante
Vengono qui racccolti quattro racconti di Stefan Zweig, autore di di primo piano della cultura mitteleuropea e narratore assai stimato ed ammirato (anche se non da parte di alcuni suoi contemporanei, come Schnitzler e Mann). “La donna e il paesaggio” narra dell’ addensarsi di un temporale che dovrebbe rompere un’insopportabile afa estiva, e del concomitante, quasi speculare irrompere, nel protagonista, della passione dei sensi per una adolescente incontrata casualmente. “Notte fantastica”, che dà il nome alla raccolta, si focalizza sull’esperienza di un giovane che riesce a scuotersi dall’apatia in cui l’hanno precipitato gli agi di una inattesa eredità capace di soddisfarne ogni desiderio, grazie ad un evento in cui si scopre capace di un’azione indegna che avrebbe pensato del tutto incompatibile con l’idea e la stima di sé. “Il vicolo al chiaro di luna” racconta dell’amore delirante di un uomo per una prostituta dalla quale viene respinto e sbeffeggiato. “Leporella”, infine, è la storia dei cambiamenti imprevedibili e degli eventi drammatici cui conduce la stolida, esclusiva dedizione di una serva ad un giovane padrone gaudente ed irriconoscente.
I racconti, piuttosto che sulla trama, focalizzano l’attenzione sulla percezione, i sentimenti, le sensazioni , le reazioni interiori dei protagonisti, il loro nascere ed evolversi, e la loro incidenza, in relazione a situazioni ed eventi esterni. E certamente l’inventiva e le capacità analitiche dello scrittore, la sua conoscenza dell’animo umano, la competenza nella scrittura, sono chiaramente evidenziate da questa selezione. Devo però ammettere francamente di non riuscire assolutamente a condividere, e nemmeno a comprendere, il pressoché unanime entusiasmo di lettori e recensori per questi racconti, che nel risvolto di copertina vengono definiti “superbi”.
Sulle prime queste storie sono senz’altro riuscite a suscitare il mio interesse e le mie aspettative di lettore, offrendomi anche il piacere di una scrittura raffinata e suggestiva. Procedendo nella lettura, tuttavia, ho avuto la sensazione assai netta che, quasi in tutte, le promesse degli esordi finissero per essere mancate e deluse, condotte al naufragio degli eccessi di una scrittura caratterizzata da un profluvio di aggettivi, spesso sinonimici, dal moltiplicarsi di similitudini ed immagini metaforiche, dall’insistenza con cui eventi o ambientazioni sono caricati di contenuti emblematici o simbolici. Tutto ciò alla fine si risolve in una ripetitività e sovrabbondanza gratuite, talora ossessive, secondo un ritmo che finisce per apparire prevedibile. Mi è sembrato come se la voce narrante – soprattutto nel caso dell’io protagonista, nei primi due racconti, o dell’io testimone nel terzo - voglia strafare nelle descrizioni di stati d’animo, ambienti ed eventi, non so se per una propria indecisione nell’operare una necessaria selezione in seno ad un ricco repertorio di capacità espressive, oppure nel convincimento di riuscire a conquistare il lettore sommergendolo nel bello scrivere. Descrizioni, immagini ed espressioni, singolarmente prese, risulterebbero senz’altro efficaci, originali, suggestive: ma prese nel loro insieme e nel loro accumularsi, man mano che si va avanti, conducono al lievitare di una ridondanza che a tratti appare persino sfociare in una involontaria auto-parodia. Con il che la sospensione volontaria dell’incredulità si perde irrimediabilmente e, con essa, ogni senso di coinvolgimento ed empatia.
Non credo sia un caso che in effetti il mio maggiore apprezzamento - a differenza di quello che mi sembra essere nella generalità dei commenti - vada all’ultimo dei racconti, “Leporella”: l’unico svolto da un narratore esterno, in terza persona - anziché in prima persona dall’io narrante, protagonista o testimone, come nei primi tre - e forse proprio per questo meno soggetto agli eccessi in quelli avvertiti