Narrativa straniera Racconti Le botteghe color cannella
 

Le botteghe color cannella Le botteghe color cannella

Le botteghe color cannella

Letteratura straniera

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Insieme a Gombrowicz e Witkiewicz, Bruno Schulz completa la grande triade della letteratura polacca del Novecento. I suoi racconti costituiscono un unico ciclo di ricordi d'infanzia, un album di abbaglianti quadretti a colori dove la fanciullezza riappare rimescolata e incongrua come nei sogni. Tutto ruota attorno ad un padre mattoide, venditore di stoffe in un quartiere dove proliferano odorose botteghe di merci rare. Lo stile pirotecnico, prodigo di aggettivi e incline all'ornamento metaforico, lascia trasparire, dietro l'esuberanza irrefrenabile delle immagini grottesche e il furore analogico, la miseria e il decadimento dell'impero asburgico. Tra oggetti che si animano e personaggi che si deformano in fantocci, Schulz fa della gioventù l'archivio di ogni scoperta.



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Le botteghe color cannella 2023-09-14 11:07:33 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    14 Settembre, 2023
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IL FANTASTICO E COLORATO MONDO DI BRUNO SCHULZ

“Le visioni affluivano, si affollavano formando ingorghi”

Anni fa, al termine di uno spettacolo cui assistetti a Chiavari, Moni Ovadia consigliò al pubblico presente la lettura di un’opera che allora mi era completamente sconosciuta, “Le botteghe color cannella” di Bruno Schulz. All’inizio avevo pensato, lo confesso, che il suggerimento fosse dovuto soprattutto alla comune origine ebraica dei due artisti, magari rafforzato da un gusto affine per l’umorismo yiddish e per le storielle chassidiche. Quando tempo dopo ho preso finalmente in mano il libro di Schulz, il quale contiene in poche centinaia di pagine l’intera sua produzione sopravvissuta all’Olocausto, mi sono reso conto che mai raccomandazione fu più provvidenziale, perché mi ha consentito di essere messo a parte, come un adepto privilegiato, di uno dei segreti meglio custoditi della letteratura europea del Novecento. Nelle “Botteghe color cannella” si assiste infatti a un incantevole tripudio, a una sfrenata polluzione di immagini visionarie e fantastiche, che fioriscono sulle pagine grazie al lussureggiante e inesauribile rigoglio di una tra le più fervide e prodigiose immaginazioni che mi sia mai stato dato di conoscere. Affascinato da quel mistero imperscrutabile che è la vita, Schulz ne mostra “la ricchezza e complessità in migliaia di possibilità caleidoscopiche, ognuna delle quali portata a un limite paradossale, a un’esuberanza caratteristica”. Portavoce emblematico dell’autore è il padre del narratore, Jakub, una sorta di novello Prospero che, non si sa se più pazzo o uomo di genio, dedica tutto il tempo che la professione di commerciante di stoffe gli concede a progettare bislacchi esperimenti mesmerici e stravaganti creazioni demiurgiche, guardato con sufficienza e distacco dal resto della sua famiglia. In questo “incorreggibile improvvisatore”, in questo “prestigiatore metafisico”, in questo “maestro schermitore dell’immaginazione, difensore della causa persa della poesia”, si trova incarnato il messaggio più profondo e pregnante di Bruno Schulz, ossia l’inesausto e caparbio tentativo di superare la banalità del quotidiano per mezzo della forza giocosa e fanciullesca della fantasia. E’ così che egli trasforma letteralmente l’acquiescente zio Edward in un apparecchio elettrico collocato in una parete di casa, moltiplica piccioni come un illusionista da circo e, soprattutto, dà vita, dopo aver studiato per settimane polverosi e antiquati libri di ornitologia, a improbabili uccelli esotici facendo covare da enormi galline belghe le uova già fecondate fatte venire, con grande spreco di soldi e fatica, da lontani paesi stranieri, facendo sì che in breve tempo le stanze domestiche si riempiano di fantasiosi, colorati e cinguettanti pennuti che finiscono per annidarsi ovunque, dai bracci dei lampadari ai bastoni delle tende, dalle cime degli armadi alle cornici dei quadri. Nel “Trattato dei manichini, ovvero Secondo libro della Genesi” Jakub rivela esplicitamente il proprio afflato demiurgico e si arroga l’ambizioso privilegio del creatore, fidandosi ciecamente della docilità, della porosità, della mistica consistenza della materia. Si tratta però, se così si può dire, di una creazione di seconda mano, rozza e maldestra, in cui viene data “la preferenza alla paccottiglia”, “perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale”. E’ evidente il riferimento al mito del golem, la mostruosa creatura di argilla a cui, secondo le leggende ebraiche, gli iniziati ai misteri della cabala e ai poteri legati al nome di Dio sono in grado di dare la vita. Schulz declina questo mito in chiave burlesca, in quanto il progetto di demiurgia di Jakub si esprime nella volontà di creare una seconda volta l’uomo “a immagine e somiglianza di un manichino”. E’ curioso come nelle “Botteghe color cannella” le cose e gli oggetti si animino, si metamorfizzino (le tappezzerie sembrano pullulare nottetempo di presenze misteriose, i tappeti occhieggiano continuamente tra di loro, le stoffe si srotolano e scendono dagli scaffali nelle ore di pausa del negozio e nei solai si tengono vere e proprie assemblee di bottiglie, pentole e stoviglie), mentre al contrario gli esseri viventi si reifichino, trasformandosi in marionette, in maschere di cera, in uccelli impagliati e in altri ammennicoli del genere. L’universo di Schulz è pieno di affascinanti cianfrusaglie, di singolari mirabilia da bric-à-brac, che trovano il loro teatro nelle attraenti botteghe del titolo, aperte a tutte le ore, nelle quali “si potevano trovare bengala, scatole magiche, francobolli di paesi da tempo scomparsi, decalcomanie cinesi, indaco, colofonie di Malabar, uova di insetti esotici, di pappagallo, di tucano, salamandre vive e basilischi, radici di mandragola, giocattoli meccanici di Norimberga, homunculi in vaso, microscopi e binocoli, ma soprattutto libri rari e curiosi, vecchi infolio pieni di incisioni straordinarie e di storie sorprendenti”. A queste botteghe si contrappone nei racconti schulziani la “via dei coccodrilli”, in cui tutto è imitazione posticcia e fasulla della modernità, tutto è equivoco, grigio, impersonale, illusorio come le merci che vi vengono vendute, che titillano con astuzia i bassi istinti dell’uomo, creando desideri artificiali e fittizi destinati a bruciare e a spegnersi in un batter d’occhio, e in cui Schulz sembra prefigurare (come Kafka in “America”) una sorta di critica ante-litteram del consumismo contemporaneo, destinato a dilagare in maniera inarrestabile in tutti i paesi e a tutte le latitudini. La simpatia di Schulz va invece a tutto ciò che “può essere per la sua provenienza e per i suoi mezzi piccolo e povero, eppure, avvicinato all'occhio, può aprire nel suo interno una prospettiva infinita e radiosa”. Lo stesso Libro universale, contenente l’immensità del trascendente, che il padre compulsa con devozione e solennità, strofinando pazientemente le sue pagine con il dito bagnato di saliva, diventa per il piccolo narratore volta a volta un almanacco da fiera, una rivista con pacchiani annunci pubblicitari o un album di francobolli. Schulz eleva così il grossolano e il volgare al livello del sacro e del sublime, perché è in grado di scorgervi quella singolarità, quella eccentricità che sola può dare, a chi è capace di guardarla con occhi di fanciullo, sapore all’esistenza.
Il gusto schulziano per il bizzarro, per l’inusitato, coinvolge tutto, perfino le stagioni dell’anno. Nelle “Botteghe color cannella” si racconta di tredicesimi mesi, mesi falsi, apocrifi, soprannumerari, generati dalla “incontinenza senile dell’estate, nella sua libidinosa e tardiva vitalità”; di “pseudoautunni” che sono come dei miraggi malati, delle poetiche ma ingannevoli quinte teatrali; di primavere che non si accontentano di ardenti frenesie, di agitati eccessi, di fiorite estasi prima di venire meno alle loro aspettative ed essere assorbite dalla stagione successiva, primavere che hanno invece il coraggio di perseverare e mantenere tutte le loro promesse, di realizzare tutti i loro incantesimi; di estati torride, inebrianti, abbacinate, in cui nella selvatica, aggrovigliata vegetazione di un giardino abbandonato si può addirittura avere la ventura di sorprendere spaventati folletti in fuga precipitosa verso le fronde ombrose delle piante. Ho parlato di stagioni perché Bruno Schulz è un abilissimo descrittore degli eventi atmosferici, in grado ad esempio di cogliere miracolosamente tutte le più impercettibili sfumature, le più recondite suggestioni di una giornata primaverile in un parco cittadino, dall’alba al crepuscolo. E’ però nelle scene notturne, per una predilezione personale dovuta a una natura incline alla solitudine e alla contemplazione silenziosa del creato, che Schulz dà il meglio di sé. Nelle buie ore che seguono il tramonto è infatti possibile contemplare, in una sorta di cosmica sospensione, le metamorfosi della volta celeste, le ingegnose e infinite configurazioni delle stelle. Nell’omonimo racconto, ad esempio, lo scrittore polacco paragona la notte di luglio “al cuore di un'immensa rosa nera che ci ricopre con il sonno moltiplicato di mille petali vellutati”, oppure “al nero firmamento delle nostre palpebre chiuse, cosparso di pulviscolo vagante, di una bianca polvere di stelle, razzi e meteore”, o ancora “a un treno notturno lungo come il mondo, che corre in uno sconfinato tunnel nero” (“Attraversare la notte di luglio è passare a fatica da un vagone all'altro, in mezzo a viaggiatori sonnolenti, lungo corridoi affollati, fra scompartimenti soffocanti e correnti d'aria incrociate”). I personaggi di Schulz sono spesso sorpresi nell’atto di dormire, piuttosto che descritti nelle ore di veglia, avvinghiati al sonno come Giacobbe nella lotta con l’angelo, mentre intorno a loro succedono le cose più strane, come ad esempio che intere falangi di sbratti, di travi, di cavalletti di legno, di vecchie stoviglie abbandonino le soffitte per volare nella bufera sopra la città addormentata. L’intera opera di Schulz è in fondo, a volerla sintetizzare in breve, un perpetuo, originale esperimento con cui egli si propone di indagare l’altra dimensione, quella nascosta e normalmente trascurata dalla maggioranza degli altri scrittori, ossia il rovescio delle cose, gli avvenimenti che “tentano soltanto di accadere… e subito si ritraggono temendo di perdere la propria integrità in una realizzazione difettosa”, quelle ore in cui “nella penombra le strade si moltiplicano, si confondono e si scambiano l’una con l’altra” e “nel cuore della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci”, e tutto quel “mondo invisibile dei ripostigli oscuri, delle tane dei topi, dei vuoti spazi tarlati sotto il pavimento e delle gole dei camini” in cui ama scomparire Jakub per sfuggire all’asfissiante tedio dell’umanità meschina e priva di sogni.
Se “Le botteghe color cannella” è un libro rimarchevole il merito non è solo dell’originalità delle sue tematiche, ma anche del brillantissimo stile di Bruno Schulz. Nella sua opera abbondano le metafore e le similitudini (le giornate invernali “si indurivano di freddo e di noia, come tozzi di pane dell’anno passato”; le orecchie del padre che ascoltano le voci fuori del negozio si allungano e ramificano come “fantastico corallo, polipo rosso ondeggiante nelle torbide acque della notte”; l’aria della notte è un “nero Proteo che per divertimento forma addensamenti vellutati, scie di profumo al gelsomino, cascate d’ozono, vuoti d’aria improvvisi che sbocciano all’infinito come ampolle nere, mostruosi grappoli di oscurità, gonfi di nero succo”), gli ossimori (“il chiassoso silenzio mattutino”) e i neologismi (si possono agevolmente rintracciare termini come “giornigramigna”, “testesonagli”, “uominibatacchi”, “macchineragno”, “creaturedomanda”, “quadrienigma”). C’è un’esuberanza stilistica che asseconda alla perfezione il vorticoso mulinare della fantasia di Schulz e che trova pochi paragoni nella letteratura passata e coeva. Certo, vi sono numerosi riferimenti biblici (il Libro di cui già si è detto, o meglio ancora la scena, piena di citazioni veterotestamentarie, dell’assalto notturno dei clienti alla bottega di tessuti di Jakub, il quale come un collerico profeta assiste sdegnato alle brulicanti e confuse contrattazioni intorno alla sua mercanzia, imprecando contro quegli adoratori di Baal che profanano quella terra di Canaan fatta di stoffe, drappi e velluti che egli custodisce gelosamente come riserve accumulate in un granaio e da cui malvolentieri si separa, preferendo mantenerle intatte piuttosto che convertirle in denaro sonante), ma la Bibbia è citata in maniera caricaturale e buffonesca. Le trasformazioni di Jakub in scarafaggio, in gambero o in uccello fanno poi pensare, naturalmente, al Kafka de “La metamorfosi”, ma se il tono dello scrittore praghese è angoscioso e tragico, il metamorfismo del personaggio di Schulz ha sempre un’accezione faceta e scanzonata. Più pertinente semmai è l’accostamento con Gombrowicz, esplicitamente citato nel racconto in cui il pensionato si ritrova, dopo cinquant’anni, dietro i banchi di scuola, ma in Schulz, a dire il vero, non c’è traccia alcuna della irriverente satira sociale che caratterizza invece “Ferdydurke”. Se passiamo poi agli epigoni di Schulz, agli autori contemporanei influenzati dallo scrittore polacco, la scelta è forse ancora più ristretta, dal momento che mi vengono in mente solo Volodine (il sanatorio, con quelle fantasmatiche presenze che non si sa se siano più vive o morte, ricorda alla lontana il Bardo descritto in “Terminus radioso”), Cartarescu (per la commistione di realtà, sogno e allucinazione che caratterizza, sia pure con un differente approccio teorico, entrambi gli autori) e, spostandoci dalla letteratura al cinema, il regista e animatore ceco Jan Svankmajer (per lo sbrigliato surrealismo che lo contraddistingue). Il fatto è che Bruno Schulz è difficilmente assimilabile a mode, correnti e perfino epoche storiche; la sua estrosa ma allo stesso tempo delicata poetica risulta sempre assolutamente personale, inconfondibile e costituisce uno dei più ragguardevoli monumenti all’immaginazione creativa che l’arte abbia mai saputo concepire. Anche se i suoi racconti possono a prima vista apparire diseguali, poco omogenei, scarsamente organizzati e quasi incapaci di arginare con una coerente struttura narrativa l’incontrollabile furia dell’ispirazione, Schulz ci rammenta che “tutte le cose sono collegate, tutti i fili sboccano in un unico gomitolo. Avete notato che in mezzo ai versi di certi libri passano a volo stormi di rondini, interi versetti di rondini palpitanti, affusolate?” In questa lirica rivendicazione del primato della poesia sulla prosaicità del quotidiano risiede l’incontaminata essenza di un autore che ha attraversato il secolo scorso come una meteora, ma è riuscito nondimeno a lasciare al mondo una scia luminosa e imperitura.

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Witold Gombrowicz: "Ferdydurke"
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