La veneziana La veneziana

La veneziana

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La veneziana comprende una sequenza di racconti scritti in russo da Nabokov, quasi tutti fra il 1923 e il 1925. È questo il periodo che rimane in gran parte da scoprire della sua opera. Qui Nabokov si mostra già maturo e gioca su mutevoli scenari: la Russia perduta, l’Inghilterra degli studi universitari, la Svizzera di brevi vacanze sulla neve, la Germania, nuova patria casuale e non amata. Ciascuno di questi scenari, che poi rimarranno inevitabili nella geografia mentale di Nabokov, è una sfida per una divorante vocazione narrativa, per una scrittura che sonda con felice stupore le sue latenti possibilità, i suoi molteplici toni e registri.



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La veneziana 2015-07-31 15:38:30 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    31 Luglio, 2015
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nascita di uno scrittore

Questo volume Adelphi ci offre la possibilità di scoprire la produzione letteraria del giovane Nabokov. Infatti contiene tredici racconti, scritti tra il 1920 e il 1928, ovvero quando l’autore non è ancora trentenne. Alcuni dei racconti vennero pubblicati su riviste dell’emigrazione russa edite a Berlino, mentre altri restarono inediti. Nabokov, infatti, figlio di un noto politico russo, lasciò la Russia con la famiglia dopo la guerra civile (il padre si era schierato con i Bianchi), dapprima in Gran Bretagna, quindi a Berlino e poi ancora a Parigi.
A differenza dei grandi romanzi della maturità (tra cui Lolita), scritti in inglese, questi racconti furono scritti in russo, lingua che Nabokov utilizzò per le sue opere sino alla fine degli anni ’30.
Anche per questo si tratta indubbiamente di un Nabokov molto diverso dallo scrittore americano del secondo dopoguerra, oserei dire di un Nabokov minore. In alcuni racconti, in particolare nei primi due ("Lo spirito dei boschi" e "Suoni", che sono anche le prime prove letterarie dell’autore) affiora a mio avviso una certa ingenuità sia tematica sia stilistica. Entrambi i brevi racconti, pur molto diversi tra di loro, sono intrisi dalla nostalgia per la Russia perduta: nel primo uno Spirito dei boschi viene a trovare lo scrittore nella sua stanza solitaria, e gli narra che anche lui è dovuto scappare dalla Russia, perché i boschi sono stati tagliati o bruciati, e la violenza regna nella grande patria. Il secondo, dai toni più idilliaci, prende lo spunto dal racconto di una relazione amorosa che sta per finire per descrivere l’atmosfera sospesa del settembre 1914, gli ultimi giorni di un mondo cui Nabokov si ricollega nostalgicamente e che verrà inesorabilmente spazzato via dalla guerra e dalla Rivoluzione. E’ veramente un Nabokov alle prime armi, dai toni lirici, intimistici e come detto a volte ingenui, nel quale compare tuttavia uno dei temi ricorrenti della sua produzione letteraria giovanile: il senso di vuoto dato dalla condizione di espatriato e dalla coscienza dell’impossibilità del ritorno alla situazione (e agli agi) perduti.
L’atmosfera cambia bruscamente con il successivo racconto: "Si parla russo". Emerge qui esplicitamente per la prima volta nella prosa di Nabokov il suo viscerale anticomunismo, il suo considerare, da buon nobile che ha subito con la Rivoluzione la perdita di tutto ciò che aveva, i bolscevichi dei rozzi usurpatori. Il racconto, un quasi noir, è comunque, al di là della connotazione ideologica, molto godibile, ed anche la prosa di Nabokov, più essenziale, meno ispirata a modelli tardoromantici, contribuisce alla qualità del breve racconto.
"Un colpo d’ala" è un racconto piuttosto lungo, nel quale l’atmosfera fatua di una stazione turistica svizzera (Zermatt) agli albori dello sci, frequentata da vacui personaggi, viene sommersa dall’improvvisa irruzione del dramma, sotto forma di un evento che va al di là della comprensione umana. E’ forse il racconto che ho apprezzato di più, perché lo scintillio della prosa di Nabokov, che qui emerge già appieno, ci narra, con accenti quasi kafkiani, del freddo distacco dell’autore da una superficialità esistenziale con cui aveva probabilmente dovuto fare i conti. E’ un racconto che, sia pure con i suoi limiti strutturali, ci descrive un mondo che per Nabokov probabilmente era altrettanto insopportabile quanto la Russia sovietica.
I toni lirici e più fortemente intimistici riaffiorano nel breve "Gli dei", dove tuttavia la fantasia Nabokoviana trova piena espressione nella storia nella storia che contiene. Il successivo racconto, La vendetta, è poco più di un piccolo noir, anche se magistralmente scritto e carico di una sottile ambiguità.
Ne "La grazia" un piccolo, marginale episodio di cui è testimone il narratore ci dà la possibilità di gustare la fredda atmosfera della Berlino nella quale Nabokov vive in quegli anni, e nella quale non si riconosce: in questo senso è quasi un’anticipazione del romanzo autobiografico "Il dono", scritto oltre dieci anni dopo. Le atmosfere cittadine, questa volta di Marsiglia, predominano anche nel successivo "Il porto", mescolate ancora una volta alla nostalgia per la terra russa e al senso di perdita d’identità da cui era affetta l’emigrazione. In questi brevi racconti Nabokov scatta delle fotografie di città, nelle quali troviamo anche attimi della vita di qualche personaggio, che vengono fissati per quello che sono in quell’istante, senza che questo ci porti in nessun passato o verso nessun avvenire. Sono squarci che, nella loro brevità, sanno comunque restituirci un mondo intero, e in questo sta la maestria di Nabokov.
Il racconto che dà il nome al volume è il più lungo, ma secondo me non il più significativo. Compare, tramite il rapporto tra Frank e il padre, il tema del contrasto tra l’artista e la vita pratica, ma tutto il racconto è pervaso, a mio avviso, da un ché di artificioso e bozzettistico: i personaggi sono quasi caricaturali, nella loro netta caratterizzazione, ed anche lo spunto dell’opera d’arte che condiziona il sentire dei personaggi e ne cambia la vita non è affatto nuovo in letteratura (si pensi al "Ritratto di Dorian Gray", tanto per fare un esempio).
"Il drago" è un racconto secondo me splendido, per la grande ironia che lo pervade, anche se a ben vedere pure qui non mancano gli ascendenti wildeiani (penso a "Il fantasma di Canterville") nel tema del drago che uscendo dalla sua caverna deve fare i conti con un gretto mondo borghese. E’ forse il racconto nel quale Nabokov si allontana di più dall’intimismo che ne caratterizza l’opera giovanile per entrare, sia pure sporadicamente, nel mondo della satira sociale, venata da un coerente pessimismo.
"La rissa" è un piccolo racconto, nel quale Nabokov fa professione di un estetismo assoluto e quasi paranoico, che trova anche nei movimenti di due persone che si stanno menando la bellezza dell’attimo e del corpo umano.
Con "Il rasoio" sembra di fare un salto indietro, tanto simile è la situazione a quella de "Si parla russo": forse Nabokov pensava di aver trovato un buon filone narrativo, quello dell’immigrato che si può vendicare dei torti subiti dal bolscevismo.
Più complesso è sicuramente l’ultimo brano, "Racconto di natale": oggetto degli strali di Nabokov è in questo caso la letteratura della Russia sovietica, il suo realismo che risulta del tutto convenzionale. E’ una lettura senza dubbio semplicistica, se si pensa alla ricchezza culturale che caratterizzò la letteratura sovietica negli anni precedenti lo stalinismo, come a mio avviso semplicistici e dettati dall’ascendenza di classe sono il complessivo giudizio di Nabokov sulla rivoluzione e la nostalgia per la felicità perduta che formano l’oggetto di molti dei racconti di questo volume.
Ciò non toglie che "La veneziana" ci permetta di scoprire la nascita di uno scrittore che nel corso della sua non breve vita avrebbe cambiato pelle e financo la lingua con la quale si esprimeva letterariamente. Alcuni racconti sono sicuramente propagandistici, e avevano a mio avviso lo scopo di rispondere alle aspettative più epidermiche dell’emigrazione berlinese; altri però sono piccoli capolavori, nei quali si può rintracciare l’humus sul quale sarebbe spuntato, decenni dopo, il fantasmagorico tappeto fiorito di "Lolita".

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Lolita e gli altri romanzi di Nabokov
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