Entropia e altri racconti
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L’apprendistato di un grande narratore del caos
Dopo la lettura di un’opera come 'V.', la cui complessità e vastità sorprende e per certi versi sconcerta, leggere i cinque racconti contenuti in questo ottimo volume delle edizioni e/o porta a conoscere un Pynchon sostanzialmente diverso, più convenzionale (se mi si passa il termine, da intendersi comunque compreso entro più serie di virgolette). I motivi di questa convenzionalità sono a mio avviso essenzialmente due. Il primo è che si tratta di racconti giovanili: le stesse edizioni e/o, qualche anno prima hanno pubblicato un volume, identico nel contenuto ma diverso nella forma, chiamandolo 'Un lento apprendistato', titolo che a mio avviso meglio riflette il carattere preparatorio di questi racconti rispetto alle successive opere lunghe dello scrittore statunitense. Il secondo motivo della diversa densità letteraria tra questi racconti e i romanzi è di carattere per così dire strutturale: la forma-racconto, con il suo esaurirsi in poche decine di pagine, non consente a Pynchon di allestire quel caleidoscopio continuamente mutevole di storie, toni e cromatismi che caratterizza ad esempio un’opera come il citato 'V.' e che costituisce per certi versi il nucleo fondante del postmodernismo pynchoniano.
Dicevo che si tratta di una serie di racconti giovanili: quattro dei cinque racconti, infatti, sono stati scritti prima del 1963, anno di pubblicazione di 'V.' (suo primo romanzo) ed il primo della raccolta, 'Pioggerella', risale al 1958, dunque ad un autore ventunenne. Solo l’ultimo, 'L’integrazione segreta', è stato scritto nel 1964, dopo 'V.', e proprio per il suo essere posteriore al romanzo d’esordio dimostra come il racconto in quanto forma narrativa sia strutturalmente incapace di contenere gli elementi essenziali della prosa di Pynchon: non è a mio avviso un caso che in seguito l’autore abbia deciso di dedicarsi ad opere di ben altro respiro (se si esclude parzialmente 'L’incanto del lotto 49', che comunque appartiene ancora alla prima fase dell’attività letteraria dell’autore, essendo del 1966) che sole gli hanno dato la possibilità di dispiegare la sua forza corrosiva nei confronti della struttura della narrazione che è il mezzo espressivo che lo caratterizza.
I cinque racconti di 'Entropia e altri racconti', pubblicati in volume nel 1984 con una prefazione dell’autore su cui tornerò, sono comunque tasselli preziosi per comprendere l’evoluzione dello scrittore Pynchon, anche e soprattutto perché ci rivelano – proprio attraverso la loro generale convenzionalità espressiva – alcune delle tematiche di fondo della narrativa pynchoniana, che nelle opere maggiori corrono il rischio di essere in qualche modo sommerse dalla sovrastruttura narrativa, dalla brillantezza (o complessità, se si vuole) del modo di narrare.
Trovo infatti riduttivi e non rispondenti alla realtà (almeno per quella che è la mia conoscenza dell’autore) i tentativi – come quello operato da Roberto Cagliero nella postfazione a questo volume – di attribuire a Pynchon intenti narrativi in cui '…non si cela un’ambizione totalizzante, né si intravvedono intenti programmatici generali… Non vi è [in Pynchon] tentativo di produrre una letteratura-guida, semmai il progetto consiste nell’affrontare certi problemi formali….' La prova del fatto che Pynchon scrive avendo in mente la necessità di sottoporre a una critica radicale alcuni dei paradigmi fondanti la società in cui vive, e che quindi la soluzione di certi problemi formali sia ben lungi dall’essere la motivazione del suo narrare è data proprio da questi racconti ed anche, in maniera chiara, dalla prefazione che venticinque anni dopo Pynchon antepone alla loro pubblicazione. Se Pynchon giunge, con 'V.' e le opere successive, ad affrontare radicalmente problemi formali inventando in qualche modo il cosiddetto postmodernismo è perché si è reso conto che le cose che ha da dire non possono che essere dette in un modo diverso da quello usato sino ad allora: è perché narrare il caos inenarrabile di una società consumistica che vive sotto l’incubo della distruzione atomica e della progressiva automatizzazione delle funzioni e financo delle relazioni sociali richiede un nuovo paradigma narrativo, come avevano per altro verso intuito i modernisti all’epoca della crisi della società borghese ottocentesca. E’ questo a mio avviso che fa di Pynchon un grande narratore, non il fatto che si possa essere occupato in astratto di certi problemi formali. E’ quantomeno bizzarro che Cagliero non si accorga che proprio il contenuto del volume del quale sta scrivendo contraddice la sua apodittica valutazione.
Il volume propone per primo 'Pioggerella', un racconto di ambientazione militare, che molto deve nello stile alla letteratura della beat generation. L’intento di critica alla gerarchizzazione militare e sociale, alla meccanicità e alla stereotipizzazione delle relazioni umane che induce è evidente (Pynchon dirà nella prefazione del 1984 che il racconto esprime una prospettiva di classe, e che il servizio militare 'ha comunque il merito di costituire un’ottima introduzione alla struttura generale della società'), ma il racconto è certamente opera di uno scrittore immaturo, come l’autore fa notare nella citata prefazione.
Di ben altro spessore è a mio avviso il successivo 'Terre basse', dove si intravedono alcune luci che diverranno fari nelle opere maggiori. Nel racconto fa emblematicamente la sua comparsa il personaggio di Pig Bodine, marinaio anarchico e depravato che ritroveremo in 'V.', ma è soprattutto nella descrizione delle 'Terre basse', la discarica in cui si rifugia il protagonista dopo l’improvvisa rottura della sua tranquilla vita da esponente della middle class che appare per la prima volta la metafora del caos sistematico in cui è precipitata la società. Questa città alternativa e segreta, fatta di vicoli delimitati da muri di pneumatici ed elettrodomestici abbandonati, dove Dennis Flange viene risucchiato dal canto di una sirena-zingara e dove trova una nuova dimensione esistenziale nella quale immergersi almeno per un po’ la dice lunga sulla cupa visione di Pynchon rispetto alla società in cui vive.
'Entropia', il racconto giustamente più noto della raccolta, estremizza coerentemente il senso di mancanza di futuro che caratterizza il mondo di Pynchon: per il secondo principio della termodinamica, l’aumento irreversibile di entropia porterà l’universo alla morte termica, ad uno stato di temperatura uniforme in cui non sarà più possibile alcuno scambio e quindi alcuna forma di vita. Pynchon descrive il raggiungimento di questo stato di immobilità nel nostro vivere quotidiano, presentandoci ciò che avviene in due appartamenti di un palazzo americano. In uno si svolge una festa sfrenata, in cui ormai nessuno riesce più a entrare in relazione ed a comunicare con l’altro, in cui tutti sono ubriachi e fanno cose senza senso. Al piano di sopra una coppia, che si è isolata in una sorta di serra, è conscia che la morte termica dell’universo sta giungendo ma è incapace di una qualsiasi reazione: l’impotenza di Callisto (nome emblematico, come quello di Meatball, il casinaro del piano di sotto), è simboleggiata drammaticamente dalla sua incapacità di trasmettere il proprio calore corporeo ad un uccellino che vuole salvare dalla morte. Per Pynchon, quindi, né chi ostenta una vitalità fasulla né chi si ritrae nella propria superiore coscienza intellettuale è in grado di fermare il caos sociale, la degradazione dell’energia che porterà inevitabilmente alla morte della civiltà: la tardiva ed inutile rottura della parete della serra da parte della donna di Callisto non farà altro che far entrare anche in quell’ambiente la morte termica. Nella prefazione Pynchon critica fortemente il racconto, accusandosi di avere piegato le storie e i personaggi a una tesi predefinita: anche se ciò può essere in parte vero, è però indubbio che si tratta di un racconto di una forza notevolissima, di una lucidità disperante.
'Sotto la rosa' è a mio avviso il racconto più debole, sorta di anticipazione di alcune delle pagine di 'V.' che si svolgono alla fine dell’800. E’ comunque anche qui notevole come per il tramite di una sorta di spy-story Pynchon ci comunichi l’impossibilità, da parte del singolo, di interpretare e di influire sugli oscuri disegni del potere, di dipanare le inestricabili matasse del caos mondiale. L’esecuzione di Porpentine, spia gentiluomo ormai fuori tempo, rappresenta ancora una volta la degradazione barbarica della società lanciata verso l’apocalisse della prima guerra mondiale.
La raccolta termina con 'L’integrazione segreta', il racconto ad un tempo più tenero e più scopertamente di denuncia di uno dei tratti caratterizzanti la società statunitense degli anni ’60 (per la verità in buona parte anche di oggi): la discriminazione razziale, che Pynchon lucidamente attribuisce essenzialmente a fattori economici (i 'negri' trasferitisi nel quartiere ne deprezzano i valori immobiliari). La banda di ragazzini che progetta azioni rivoluzionarie, che sola cerca di confortare il disperato musicista nero che verrà brutalmente arrestato dalla polizia, che si inventa un amico nero figlio inesistente della famiglia presa di mira dai loro genitori razzisti, secondo me si ispira ad alcune delle più belle pagine di Mark Twain, e sembra dirci, per un attimo, che forse le giovani generazioni potranno cambiare le cose. L’apparentemente dolce finale, però, ci richiama ancora una volta alla ineluttabilità del ritorno alla normalità delle cose, alla loro immutabilità.
Insomma, se come detto la forma di questi racconti è inevitabilmente diversa da quella delle opere maggiori, la sostanza con cui sono costruiti è molto simile, e proprio questa differenza di forma, questo loro essere più piani, ci permette di scoprire più agevolmente tramite questi racconti il radicale approccio di critica sociale ed esistenziale di questo grande scrittore contemporaneo.