La città della gioia
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IL SORRISO è la realtà oltre l'apparenza
da anni affascinata dagli indù e dai popoli del sud-est asiatico, che ho incrociato: il sorriso, gentile, che si sgrana fino agli occhi, sincero; quel sorriso non nasce dal possesso ma da una scintilla interiore che quei popoli riescono ad alimentare. La convivenza con la mancanza, con la morte, quel misto di rassegnazione e accettazione, la profonda dignità personale e spirituale. Questo libro è un lungo resoconto di miseria e bontà, di privazioni e solidarietà. Non scava però nel profondo a cercare la radice di quella indigenza, solo materiale, e di quell'amore per la vita, quando è la vita stessa a odiarti. la religione, qualunque essa sia, aiuta a sopportare il carico di una vita di stenti, ma non è capace di far comprendere la fonte di una mancanza tanto profonda da scarnificare la vita; la natura, in quei luoghi dominante, condiziona, determina, ma non condanna senza appello. Merito a questo scrittore di aver fatto conoscere la luce di quel popolo, per il lettore diventa l'inizio di una riflessione da approfondire.
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Aprire gli occhi sull'India
Per chi, come me, ha paura di mettere il naso fuori dal civilizzato occidente, e anche per chi avrebbe il coraggio di tuffarsi, ma gli manca la spinta. Uno sguardo verso un paese, l'India, di cui al telegiornale non si sente mai parlare, di cui si immaginano i colori, i profumi, le tigri del bengala e sì, anche le bidonville, ma delle quali raramente ci si sofferma a riflettere.
"La città della gioia" è composto da brevi capitoli, ognuno dei quali racconta di un episodio: si inizia dal tragico sfollamento di una famiglia di contadini costretti a cercare fortuna nella grande città di Calcutta, della quale sperimentano subito l'incredibile quantità e disomogeneità di cittadini, la lotta per la sopravvivenza, la ricerca disperata di cibo, soldi e lavoro.
Altri capitoli sono dedicati all'arrivo del incredibile personaggio di Paul Lambert, prete francese giunto nella bidonville con l'intenzione di vivere povero tra i poveri, e di assaporare la bellezza della semplicità, della speranza, del dolore e della sofferenza, della vita che, pur attaccata da lebbra, tubercolosi, fame e sete, non si arrende mai alla morte. E' un uomo che ricorda la forza della fede, che sia cristiana, induista o buddista, che spinge alla ricerca del bene e della forza che è insita in ogni uomo.
L'attività di benefattore di Lambert richiama l'attenzione di Max, un giovane dottore di Miami, che abbandona il lusso della Florida per venire travolto dalla miseria e dalla vitalità della bidonville.
Il romanzo è una stupenda presentazione delle usanze e delle tradizioni del popolo indiano, dei misteri dell'induismo, dei colori e dei canti delle feste religiose e dei matrimoni. Se non si è in grado di viaggiare e vivere questa realtà, bisogna per lo meno leggere le testimonianze dei coraggiosi, tra cui Dominique Lapierre, che hanno lasciato tutti i confort e, ancora più difficile, i pregiudizi e le paure, per aiutare anche con un semplice sorriso chi davvero combatte per la vita.
E' un racconto capace di far nascere voglia di donare e abbandonare il lusso e le futilità, è capace di far spalancare gli occhi della mente su un popolo sul nostro stesso pianeta, che vive in condizioni da noi così diverse, così "materialmente inferiori". Se ognuno di noi leggesse questo libro, forse migliaia di bambini indiani vivrebbero senza la pancia gonfia di vermi, migliaia di casi di lebbra verrebbero diagnosticati prima di causare agli infetti la perdita di mani e piedi, migliaia di giovani madri non morirebbero partorendo, e altrettanti uomini-risciò meriterebbero il trattamento di esseri umani.
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da sorbire a piccoli sorsi
Questo libro è come un liquore molto forte, va consumato piano. Per fortuna la lunghezza dei capitoli è molto breve, perché a leggere di un botto quaranta o cinquanta pagine ci vuole molta determinazione. Non avete idea, voi che dovete ancora leggerlo, quale valore ha questo immenso, reale, sconvolgente racconto. Non abbiamo idea, noi occidentali, frustrati dal dubbio se mettere la giacca blu sui pantaloni neri sia sconveniente, di che cosa significa tirare un risciò per tutto il giorno, guadagnare 2 euro e darne metà agli strozzini, ai poliziotti corrotti, ai padroni e con il resto dar da mangiare ai nostri figli. Non abbiamo idea di che cosa vuol dire avere fame, quella vera; non avere letteralmente nulla e però saper essere lo stesso felici quando c'è una festa.
Questo libro ti trascina in un turbine di miseria, di sporcizia, di soprusi, di tutte le cattiverie del mondo, ma come spesso accade, il peggio va a braccetto con il meglio ed ecco che in una bidonville devastata letteralmente da fiumi di merda una bambina mette un fiore fresco tra i capelli; oppure chi non ha nulla è pronto a donare tutto per gli altri, per solidarietà. Un detto indiano dice che ciò che non è donato è perduto e queste persone applicano alla lettera questa massima.
E' bellissimo.
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Bidonville: un viaggio attraverso la speranza
“Irradia ovunque amore e troverai gioia (canto indiano)”: recitano così le parole dapprima inosservate del segnalibro che per caso ho voluto utilizzare per la lettura di un libro, che parla delle bidonville, quegli ammassi di sabbia, fango e lamiere che costituiscono per mille, milioni di uomini una “casa”. Se è vero che il caso non esiste e che tutto accade per un disegno ben preciso, questo sono arrivata a crederlo quando, arrivata a buon punto nella mia, nella loro storia, i miei occhi si sono gettati su quel pezzo di carta ormai reso logoro dalla salsedine e dall’acqua che mi è servito per tenere il segno tra una pagina e l’altra, di cui in seguito ho capito il significato solo grazie alla fine della storia (che non è una storia, bensì una realtà).
Il libro di cui vi parlo è “La città della gioia”, opera di Dominique Lapierre. Scritto nel 1985, dopo una lunga e accurata indagine svolta dallo stesso autore, è diventato da subito uno dei miei preferiti.
Hasari Pal è uno dei pochi contadini sopravvissuti nella campagna bengalese, la cui famiglia viene colpita alla fine dalla carestia, che li spinge ad emigrare verso la città. I primi tempi non saranno buoni per l’assenza di una casa, per l’elemosina a cui sono costretti i figli, all’assenza di cibo per giorni.
Paul Lambert è un sacerdote francese che per dare vero senso alla sua esistenza e alla sua vocazione, decide di partire definitivamente per l’India: Calcutta e le sue bidonville possono essere l’occasione giusta per fare di Paul l’uomo più realizzato “professionalmente” e spiritualmente che conosca.
Max Loeb è un medico statunitense, figlio di uno dei più ricchi dottori della Florida: la sua casa è dotata di tutti i comfort possibili, non gli mancano le belle macchine e una bella donna, la sua fidanzata. Tutto ad un tratto decide di dare una svolta alla sua carriera.
Queste tre storie seppure diverse saranno destinate nel corso della storia ad incontrarsi inequivocabilmente. Questi uomini infatti sotto le briglie del cambiamento saranno destinati a condividere la miseria, la mafia, la malattia e la morte che caratterizzano gli slum. In ognuno di loro, però emerge una lotta continua contro la paura e la rassegnazione.
Hasari Pal, dopo aver tenuto la famiglia affamata e sulla sponda di una marciapiede per circa un mese, cerca incessantemente un posto di lavoro per il pugno di riso che avrebbe potuto soddisfare la fame dei suoi bambini. La fortuna arriva quando uno degli “uomini-cavallo” di Calcutta muore e così gli viene passato il posto di lavoro. Il compito dell’”uomo-cavallo” a Calcutta consiste nel trasportare risciò da un punto all’altro della città affrontando ogni tipo di situazione meteorologica: dall’acqua alta dei monsoni, al vento, al caldo soffocante; correre sull’asfalto bollente nelle ore più calde del giorno tra piaghe e mal di schiena per le due monetine buttate giù dai due turisti che fotografavano sorridenti e felici la città intorno a loro … e dopo qualche anno anche le sue piaghe e i suoi mal di schiena si continueranno a sentire più forti, e la tosse rossa lo inizierà a prosciugarlo dall’interno fino alla fine, quando morirà tra le braccia della moglie e dei figli nella stanza affidatagli da Paul Lambert.
Paul Lambert ritiene che per servire e comprendere appieno una persona, un popolo, bisogna stargli accanto, condividerne le sventure, le fortune, le gioie e i dolori; proprio per questo decide di intraprendere un viaggio: dalla Francia a Calcutta, per stare con i poveri. Anche se la notizia non viene compresa e condivisa da tutti, il sacerdote francese continua nella sua convinzione e parte. La società e i modi di vivere che lo aspetteranno non saranno per niente congruenti al tipo di povertà che lui si era prefissato: le condizioni igieniche sono pessime, gli scarafaggi e le blatte convivono con l’uomo, i bambini giocano tranquilli tra di loro nel fango del monsone e gli uomini ringraziano ogni giorno Iddio per quel poco che offre loro. Una povertà insolita! Nonostante la tristezza dello stile di vita, gli uomini vivono nella spensieratezza di un giorno migliore. Il sacerdote ai primi giorni di soggiorno nello slum è accolto da re: gli vengono offerti cibo, tappeti, un piccolo specchio, una tenda per l’ingresso, ecc … Piccole cose che fanno sentire a casa il “grande fratello Paul”. La differenza sostanziale delle religioni nello slum viene annullata e gli uomini di Calcutta ridotti nella vita all’interno delle bidonville ringraziano anche gli dei sconosciuti, come quel Gesù che Paul venera ogni giorno attraverso l’immagine della Sacra Sindone, “perché in quel Gesù morto e sofferente si incontrano gli sguardi delle persone che piangono nel silenzio”, così afferma il missionario francese.
Max Loeb viene richiamato a alcutta da un appello del sacerdote francese Paul Lambert, che chiede aiuto da giovani medici per la realizzazione di un centro di primo soccorso per tutti i casi disperati dello slum. Parte anche lui, lasciando la fidanzata, la sua carriera, la famiglia e gli amici, in cerca di quel richiamo che pare aver bisogno proprio di lui. Sebbene ceda qualche volta alla vita di miseria dello slum, si fa coraggio e oppone resistenza alla paura e all’egoismo nei confronti di tutti quegli uomini.
Lo stile utilizzato dall’autore non è molto complesso, anzi la lettura ne esce abbastanza scorrevole e molti sono i termini nuovi che ho imparato in questa nuova lettura. La narrazione inizia con la presentazione di Hasari Pal, successivamente si sviluppa con quella di Paul Lambert e continua con quella di Max Loeb. Nella struttura narrativa è presente un’alternanza delle vicende tra i personaggi che rende parallela la successione degli avvenimenti.
Il libro, edito dalla Mondadori con la traduzione italiana di Elina Klersy Imberciadori, ha riscosso da subito un grandissimo successo per la potenza dei sentimenti e il coraggio evidente nei cuori di ognuno dei personaggi descritti, principali o secondari che siano. Sebbene il libro sia il risultato di una lunga inchiesta che ha visto operare in prima persona lo stesso autore, non ha lo scopo di essere una testimonianza sull’India. Da quando Dominique Lapierre ha abbandonato (non del tutto, poi) i luoghi narrati, in cui ha vissuto personalmente durante la stesura del libro, ha creato con sua moglie un’associazione volta alla costruzione di opere benefiche nei territori di Calcutta e dintorni.
Un libro davvero interessante, che mi ha aperto una nuova finestra sulla società dell’India, attraverso un grande viaggio. Allora è proprio il caso di riconfermare: “Irradia ovunque amore e troverai gioia”.
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La città della gioia
Crudo, sconvolgente, illuminante e drammaticamente reale.
Questi sono gli aggettivi che meglio rappresentano questa opera di Lapierre, in cui l'autore ci descrive l'umanità che popolava gli slum di Calcutta negli anni Settanta.
Esseri umani devastati dalla miseria , dalla fame , dalle malattie, costretti a vivere come animali, per strada o in baracche fatiscenti, bimbi costretti a frugare tra i rifiuti per l'intera giornata o a lavorare almeno sedici ore in luoghi infimi e malsani, padri di famiglia pronti a qualsiasi sacrificio per portare a casa un pugno di riso, come divenire “uomini cavalli”, ossia tirare un risciò fino allo stremo della fatica.
Non pensiate di trovarvi di fronte ad un reportage di natura documentaristica, bensì ad una narrazione emozionante e coinvolgente, fatta col cuore, che va a sviscerare tutti i sentimenti di questa umanità straziata, ma tanto dignitosa e generosa.
Complimenti a Lapierre per la qualità di questo testo, scritto con cognizione di causa, dopo aver trascorso un lungo periodo in India, e per aver dato la possibilità a noi occidentali, di conoscere il vero volto della miseria e della disperazione.
Un libro capace di lasciare un segno indelebile e che consiglio vivamente a tutti.