Fuori dal nido dell'aquila
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Ricordiamoci che siamo umani
Esordio letterario di Shefit Troka, contemporaneamente protagonista e voce narrante, questo breve romanzo è costituito da poche ma intense pagine che parlano di miseria e di violenza, di speranza e disillusione, di repressione e di nuove opportunità. Gli eventi narrati risalgono a circa tre decenni fa. Tuttavia, quando c'è di mezzo la migrazione, la fuga dalle dittature, dalla fame, è inevitabile trovare delle analogie con la più stretta attualità. Siamo in Albania, all'inizio degli anni Novanta, un paese allo sbando, reduce da anni di dittatura e da una recente crisi economica e sociale dovuta ad una frode finanziaria che ha colpito gran parte della popolazione. Impossibilitati a comprare perfino un pezzo di pane, molti giovani tentano di uscire dal confine per procurarsi un lavoro che permetta loro di sfamare se stessi e la propria famiglia. Ma le strade non sono molte. Da una parte c'è la Grecia, dall'altra il Canale d'Otranto. Da una parte la violenza dei militari, dall'altra il pericolo di una traversata con mezzi di fortuna, in balia dell'imprevedibilità del mare. Troka narra in prima persona l'esperienza di un giovane albanese disposto a rischiare la vita pur di avere una seconda opportunità. Lo fa con l'esperienza di chi ha vissuto sulla propria pelle la tragica esperienza dell'esodo di massa; di chi, dopo una serie di tentativi andati male è riuscito a trovare una nuova terra su cui ricominciare, non senza inevitabili difficoltà dovute alla lingua, all'adattamento ad una nuova realtà, all'immancabile astio nei confronti dello straniero. Parole toccanti, cariche di tragicità ma anche di speranza, passaggi al limite del Neorealismo intervallati da scorci di pura poesia. Esperienze di vita che, seppur romanzate, raccontano pagine di storia ancora vive e che ancora hanno tanto da insegnare su temi delicati e troppo spesso divisivi come quelli dell'immigrazione, dell'integrazione, della solidarietà. "Mi restituì il passaporto augurandomi buon viaggio. Lo ringraziai, cercandogli in faccia una bugia. Presi il passaporto, mi alzai e andai via. Sentivo di essere seguito da molti poliziotti, ma il corpo rigido mi impediva di girarmi per controllare se veramente qualcuno mi stesse dietro. Quando uscii dal porto di Otranto mi voltai e rimasi sorpreso. Non era uno scherzo. Non mi stavano seguendo. Il sorriso di quel poliziotto cominciai a percepirlo come se fosse quello di un angelo. Un petalo che fiorisce in un posto in sospeso tra legalità e illegalità. Mi sembrava che una mano invisibile, scesa dal cielo, avesse creato un nuovo spazio necessario solo per noi due. Con quel sorriso, il poliziotto ebbe il potere di cancellare in una frazione di secondo le mie sofferenze, le mie paure. I nostri cuori, parlando con il linguaggio delle emozioni, si abbracciarono ricordandoci che siamo umani e non tutti siamo prigionieri della negatività".
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In fuga dall'Albania
Pubblicato nel 2018 dalla casa editrice siciliana Bonfirraro, “Fuori dal nido dell’aquila” è un libro dal contenuto a dir poco drammatico che trascina il lettore in quel “lembo del pianeta Terra, chiamato Albania”, dove sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, a seguito di una frode finanziaria che travolse migliaia di risparmiatori e del successivo fallimento economico, si sparse vero e proprio terrore, la cui furia cieca “avrebbe fatto piangere i bambini e gli orfani del futuro dentro il grembo delle madri.” Per non parlare dei danni profondi che erano stati già arrecati al Paese da decenni di dittatura.
L’autore, Shefit Troka, classe 1968, è uno scrittore albanese da tempo residente in Italia, il quale, poco più che ventenne, attraversò l’Adriatico a bordo di una zattera insieme ad altri connazionali. Non a caso, a essere oggetto del racconto è anzitutto la sua stessa esperienza personale, e non solo, come si evince da queste pagine che segnano un più che positivo esordio letterario.
In verità, dopo un prologo che aiuta a comprendere quanto accaduto all’improvviso nel Paese delle aquile, sono due i racconti racchiusi all’interno di questa pubblicazione: “La cameretta di Mary” e “Di là ci sarà una vita migliore”. Il primo, piuttosto breve, narra la terribile vicenda di un’adolescente che mostra come la vita, infine, sia simile a “una stella cadente che brilla una sola volta”, mentre il secondo, ben più corposo e di ampio respiro, custodisce i ricordi di un io narrante alter ego dell’autore, dando voce a una memoria che a poco a poco si fa dolore palpabile, disillusione, umiliazione, crudeltà, se non, a momenti, vero e proprio orrore.
“[…] Non saprei se chiamarla fortuna o guaio, ma il destino mi ha catapultato lungo le vie di questo paese con un nuovo nome sulla carta d’identità: clandestino.
Clandestino è una strana liberta. È come sentire addosso una inspiegabile colpa pur non avendo compiuto nessun errore. Forse il vero peccato che ti colpisce al cuore è il fatto di aver abbandonato l’infanzia, la casa dove sei nato e cresciuto, le risate, le lacrime di gioia e di dolore. Clandestino è vagare in uno spazio che non ti appartiene, presentandoti con una identità sconosciuta e sentirsi sconosciuto è come essere abbandonato. […]”
Approdato in una cittadina dell’Abruzzo, il protagonista inizia un lungo racconto che prende le mosse dalla situazione di estrema povertà della società albanese, dove mancava qualsiasi cosa. Anzitutto, elemento fondamentale per la dignità umana, la libertà.
“[…] Non esistono parole in nessuna lingua sulla terra per descrivere la sensazione di libertà. Solo il cuore di chi prova questa emozione può interpretare il linguaggio segreto e il significato di quella parola. Sentirsi libero? Forse è la stessa cosa che prova un malato terminale che, improvvisamente, guarisce. […]”
Attraverso una scrittura particolarmente apprezzabile che sa rendersi coinvolgente, sconfinando spesso in una prosa poetica intrisa di amaro disincanto, si percorrono lunghe strade polverose dapprima alla volta della frontiera greca, agognato confine che un infinito numero di disperati si propone di oltrepassare, seppure a costi altissimi. È a quel punto che si svelano atrocità inimmaginabili per chi non abbia mai vissuto sulla propria pelle situazioni di tal genere; si rimane sconcertati dinanzi a simili atti di violenza e accanimento estremi commessi dai militari ellenici ai danni di ragazzi e uomini inermi che, nel giro di poco, finiscono per precipitare nell’inferno più atroce che le parole fanno fatica a descrivere. “Perché?” si domanda il protagonista, ma soltanto la voragine del silenzio finisce per rispondergli. La medesima risposta che sembra risuonare nella parte conclusiva del libro, quando, scegliendo la via del mare, si cercherà di nuovo di lasciare l’Albania, separata dall’Italia solo da poche miglia. Su tutto, aleggia il pensiero fisso della morte che, nel tempo di un battito di ciglia, potrebbe spezzare i sogni e le speranze di chi si ostina a voler fuggire da una dittatura che, come noto, aveva privato i cittadini persino del conforto di una fede religiosa. Ma per chi ha fame di futuro, si sa, nemmeno la paura di morire può essere un ostacolo.
Una testimonianza, questa di Troka, molto toccante che merita ascolto. Un’opera prima più che lodevole per contenuto e forma (quest’ultima, oltretutto, sorprende piacevolmente dal momento che si tratta di un autore non madrelingua). Una lettura che fa male, e non poco, ricordandoci una pagina di storia recente in cui l’Italia si ritrovò coinvolta in modo particolare, mentre quello dell’emigrazione continua a essere un tema, come confermano ormai i desolanti scenari di morte di altre rotte del nostro Mediterraneo, di drammatica attualità. Da leggere!