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Viaggiatore curioso e acuto, Kapuscinski si cala nel continente africano e se ne lascia sommergere, rifuggendo tappe obbligate, stereotipi e luoghi comuni. Abita nelle case dei sobborghi più poveri, brulicanti di scarafaggi e schiacciate dal caldo, si ammala di tubercolosi e si fa curare negli ambulatori locali; rischia la morte per mano di un guerrigliero; ha paura e si dispera. Ma non rinuncia mai allo sguardo lucido e penetrante del reporter, all'affabulazione del narratore: che parlino di Amin Dada o della tragedia del Ruanda, di una giornata in un villaggio o della città di Lalibela, tassello dopo tassello le pagine di "Ebola" compongono il mosaico di un mondo carico di un'inquieta e violenta elettricità.



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Ebano 2016-05-30 08:28:03 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Mag, 2016
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Africa: mito, leggenda e realtà.

L’Africa è l’occasione della vita per Ryszard Kapuscinski. Nato a Pinsk, Bielorussia, nel 1932 e morto a Varsavia nel 2007, l’uomo è stato tanto un saggista, giornalista e scrittore quanto corrispondente estero per la Pap, agenzia di stampa polacca. “Heban”, classe 1998 pubblicato in Italia soltanto nel 2000, è il resoconto e l’analisi di quel viaggio durato quarant’anni, di quel percorso che ha rappresentato la sua grande opportunità.
Ebano non contiene solo e soltanto la visione puntuale di un uomo bianco in una terra dove il diverso per una volta non è il nero, è un insieme di frammenti di episodi, paesaggi, uomini, guerre, tradizioni, spiritualità, tempo, contraddizioni, e vite. E’ un’osservazione priva di giudizio, priva di condanna, priva di assoluzione. E’ espressione dell’amore dell’autore per quella terra di pericoli e lotte per la sopravvivenza, per quel luogo pieno di umanità e dignità. Kapuscinski, infatti, non si limita all’esplorazione della parte turistica del continente, va oltre, entra nel profondo. Lo fa suo e ne accetta i rischi. E nonostante si ammali di malaria celebrale, di tubercolosi, e seppur venga a conoscere la paura di trovarsi di fronte ad un serpente velenosissimo, il delirio di trovarsi nel deserto senza acqua e riparo, il terrore di essere preda e vittima delle bande, non si tira indietro dal suo compito, al contrario cerca di capire quel mondo spirituale, quel fatalismo che si cela dietro la precarietà di un’esistenza di povertà, di privazioni, carenze, miseria.
Descrive il continente in ogni sua sfaccettatura l’autore, analizzando il territorio e la componente umana, delineando ed apprezzando quella animale assaporando odori e colori di quei canti e brulicare di vita. L’Africa è mito, l’Africa è la terra di quel “tanto tempo fa”, è un luogo dove non esiste il concetto di sviluppo bensì quello di durata, è una dimensione in cui la nozione stessa di storia si ferma, sostanzia e racchiude nel quanto ricordato. Non esistono infatti documenti e prove di quello che è stato il loro divenire, tutto si limita a quella che è la memoria umana, la tradizione che di padre in figlio si trasmette. Kapuscinski rompe questa consuetudine, e con il suo scritto, la sua attenzione e il suo cuore nero in un corpo bianco, lascia per la prima volta al mondo africano ma anche a quello occidentale una testimonianza. Una forma scritta autentica e puntuale che ci dedica, che ci affida, che ci invoca di custodire prendendocene cura.

«L’europeo e l’africano hanno un’idea del tempo completamente diversa, lo concepiscono e vi si rapportano in modo opposto. Per gli europei, il tempo esiste obiettivamente, indipendentemente dall’uomo, al di fuori di noi, ed è dotato di proprietà misurabili e lineari. Secondo Newton il tempo è assoluto: “il tempo assoluto, vero, matematico scorre in sé e per sé in virtù della sua stessa natura, uniformemente e senza dipendere da alcun fattore esterno”. L’europeo si sente al servizio del tempo, ne è condizionato, è il suo suddito. Per esistere e funzionare deve osservare le sue ferree e inalterabili leggi. I suoi principi e le sue rigide regole. Deve rispettare date, scadenze, giorni e ore. Si muove solo negli ingranaggi del tempo, senza i quali non può esistere. Ne subisce i rigori, le esigenze e le norme. Tra l’uomo e il tempo esiste un conflitto insolubile che si conclude con la sconfitta dell’uomo: il tempo annienta l’uomo. Gli africani, invece, intendono il tempo in modo completamente opposto. Per loro si tratta di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva. E’ l’uomo [..] che influisce sulla forma, sul corso e sul ritmo del tempo. Il tempo è addirittura qualcosa che l’uomo può creare: infatti l’esistenza del tempo si manifesta attraverso gli eventi, e che un evento abbia luogo oppure no dipende dall’uomo. Se due eserciti non si danno battaglia, la battaglia non avrà luogo (ossia il tempo non manifesterà la sua presenza, non esisterà). Il tempo è un risultato del nostro agire e sparisce ogni volta che sospendiamo o non intraprendiamo la nostra azione. E’ una materia sempre pronta a rinascere sotto il nostro influsso ma che, se non le trasmettiamo la nostra energia, cade in uno stato di ibernazione o affonda addirittura nel nulla. Il tempo è un’entità inerte, passiva e, soprattutto, dipendente dall’uomo»

«In che cosa consiste questa attesa passiva? La gente vi sprofonda ben sapendo ciò che avverrà, per cui cerca di mettersi più comoda possibile, nel posto migliore. A volte si sdraia, a volte si siede per terra, su una pietra, a volte si accovaccia. Smette di parlare. La torma degli esseri in attesa passiva è muta. Non emette alcun suono, tace. I muscoli si rilassano. La figura si assottiglia, si affloscia, si rattrappisce. Il collo si immobilizza, la testa si fa immota. L’uomo non si guarda attorno, non osserva, non manifesta curiosità. Spesso, ma non sempre, tiene gli occhi chiusi. Gli occhi di solito stanno aperti, ma lo sguardo è vitreo, senza una scintilla di vita»

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