Diario d'Irlanda
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Verde d’Irlanda
“Questa Irlanda esiste: ma chi ci va
E non la trova,
Non può chiedere risarcimenti
All’autore”
Questa è la sorniona epigrafe a “Diario d’Irlanda” pubblicato nel 1957 a Köln (Colonia), dove l’autore bonariamente sembra voler mettere le mani avanti alle eventuali future critiche al suo ritratto dell’Isola. La terra dei santi, la terra dei gran bevitori, la terra verdissima per eccellenza, un paradiso dove vivere nel senso pieno e dove gli arcobaleni sono sottili come bolle di sapone. Il libro “utopia” di Böll , una “pastorale”, così è stato definito dalla critica, perché l’Irlanda sembra un sogno lontano, dove la speranza, la genuinità dominano quasi indisturbati.
Nelle intenzioni di Böll è davvero così: è un racconto di un viaggio fatto realmente insieme a sua moglie e ai tre figli due anni prima, per sfuggire all’aria pesante della corrotta Germania e visitare le tombe dei suoi poeti preferiti, Swift ed Yeats.
Un racconto pieno di immagini, con personaggi e luoghi tangibili che diventano i piccoli protagonisti dei brevi capitoletti che compongono l’opera (in tutto diciassette più il congedo, per poco più di 150 pagine), ben delineati con un magistrale tocco di pennello. Osservazioni psicologiche, di costume, di vita quotidiana, ben lungi da quella prosa anticlericale che caratterizzerà “Opinioni di un clown” e le opere successive. Ogni capitoletto è come un viaggio in treno con le sue fermate, ad ogni tappa piccole grandi storie da gustare : il cavadenti che parla con molto tatto di Hitler mentre estrae un dente malato ad un bevitore tra un boccale di birra e l’altro, il breve racconto dei ferrovieri irlandesi che fanno viaggiare a credito sei stranieri, la giovane moglie del dottore dai piedi bellissimi che partorisce sempre a settembre, la donna di Dublino alla finestra con la “pentola arancione piena di latte”, e le tante bottiglie piene di niveo latte alla finestra in attesa di essere aperte, di sera poi “sverginate, derubate del loro sigillo, le bottiglie di latte se ne stavano ora grigie, vuote e sporche, davanti alle porte e sui davanzali. Aspettavano tristi di essere sostituite, al mattino, dalle loro fresche e scintillanti sorelle; i gabbiani non erano abbastanza bianchi per sostituire l’angelo o splendore delle bottiglie intatte ed innocenti”.
Innocente, tutto in Irlanda è innocente, tutto bianco abbagliante e verde.
Voglio segnalare un altro passo -senza fare troppe rivelazioni però- dove ho pensato a Joyce e, per correlazione, al nostro Italo Svevo quando si parla delle sigarette e del fumo:
“Il fuoco al camino rende superfluo uno degli oggetti più antipatici e più necessari della civile società, il portacenere. Quando l’ospite ha lasciato sul portacenere spezzettato in mozziconi, il tempo che ha trascorso in una casa e la padrona vuota quei piattini puzzolenti, resta sempre quella sporcizia tenace, quasi appiccicosa, nerogrigia. C’è da stupire che psicologi abbiano sondato tanti abissi della psiche umana senza scrutare quello contiguo, dove affondano i mozziconi della sigarette. (...) Eccoli, dunque, i resti di sigarette fumate solo a metà, brutalmente schiacciati da persone che non hanno mai tempo e combattono invano, aiutandosi con le sigarette contro il tempo, per guadagnare tempo”.
Un omaggio all’Irlanda, a questo “devoto paese che è cattolico, ma che non fu mai calpestato da mercenari romani: un pezzetto dell’Europa cattolica oltre i confini dell’impero romano”.