Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone
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TRA ESTRANEITÀ ED APPARTENENZA
Per capire fino in fondo una civiltà diversa dalla nostra, bisogna liberarsi dei soliti cliché. Nessuno può dirlo con più convinzione dell’instancabile scrittore e viaggiatore olandese, Cees Nooteboom coi suoi innumerevoli viaggi in Giappone, che abbracciano circa un quarantennio, segno di un dialogo mai interrotto.
Con alle spalle, anzi meglio, nella valigia, gli inseparabili libri dei suoi amati scrittori giapponesi (Tanizaki, Kenzaburo, ma soprattutto le due grandi scrittrici, la Shonegon e, la Proust giapponese, Murasaki ), lo scrittore cerca di trovare, soprattutto nel primo viaggio fatto negli anni ‘70, le atmosfere magiche del Giappone che si sono formate nelle propria immaginazione.
Si scontra invece con una realtà che nasconde ostinatamente ciò che è sotto la superficie, una superficie scivolosa e impenetrabile allo straniero, al tanin, termine giapponese per indicare non soltanto chi non parla giapponese, ma in senso più ampio,
“qualcuno che non ha alcuna connessione reale con te. ‘Lo straniero’ di Camus è tanin, ‘L’outsider’ di Colin Wilson è tanin. Non avere nessuna relazione con qualcuno implica non essere visti, o almeno non veramente.”
Infatti la prima impressione che l’autore ha avuto nel suo primo viaggio è stato quello di sentirsi “invisibile”, non visto realmente dalle persone che si rivolgono a lui, che con fredda ed estrema gentilezza, gli servono il tè nell’albergo o lo accompagnano nei luoghi di culto in taxi.
Niente è più lontano da noi di questa civiltà! E avverte questo frustrante senso di incomunicabilità reciproca nei viaggi successivi, ogni volta che torna in Giappone, la sua ricerca della scintilla che spiega tutto è sempre più vana.
Nooteboom sostiene che un olandese come lui, anche in Sicilia, in mezzo agli avventori di un bar a Taormina, o volendo addirittura uscire fuori dall’Europa, andando a Persepoli, in Iran, avverte sempre un senso di appartenenza ad una cultura comune, dovuta sicuramente ai grandi padri greci e latini.
Tale senso di appartenenza viene meno quando si va in Giappone, la cui cultura è quanto di più lontano esista dalla via occidentale, nonostante oggi lo assimiliamo ai Paesi capitalisti.
Uno dei luoghi comuni di cui bisogna liberarsi è quello di pensare al Giappone solo come al magico paese dei giardini zen, dei templi coi tetti spioventi
“Non abbiamo a che fare soltanto con il Giappone di bunraku, ukiyo-e, kabuki e ikebana, ma anche con quello di Honda, Toyota e Mitsubishi”.
Quasi inconcepibile la convivenza tra l’estetica assoluta e la barbarie edilizia, tra ritiro intimo in un tempio o un giardino zen e l’essere trascinato dalla massa umana che ti circonda e ti incorpora in sé mentre si è sui mezzi pubblici oppure per strada. E questa realtà ossimorica ha il suo grande fascino, il fascino di una civiltà “nata e cresciuta fuori da ogni influsso occidentale”.
D’altronde, ammette che questa ricerca frustrante dell’essenza del vero Giappone è un po’ colpa sua, sia perché il suo Giappone “è un Giappone di libri”, sia perché
“Io ho il carattere sfortunato di chi vuol sempre guardare oltre la collina e non ha ancora capito che dietro non c’è altro che una nuova collina. Che cosa mi aspetto in realtà (e da così tanto tempo)?”. Il suo Giappone è un Giappone dove non corrispondono più né tempo né spazio. Rimane un fondo di amarezza in questo libro, secondo me, viaggio dopo viaggio l’autore riconosce di trovare un dialogo soltanto nel grande libro della Murasaki Shikibu, vissuta nell’epoca Heian (antico nome di Kyoto, quando Tokyo si chiamava invece Edo), autrice del millenario ‘Genji Monogatari’, opera cardine della letteratura mondiale:
“se una signora nell’anno mille scrive qualcosa che oggi mi colpisce e mi commuove ancora è perché tra la scrittrice, i suoi personaggi e il lettore si genera una tensione psichica tale che il millennio che li divideva a un tratto non esiste più. Sono cose che appartengono ai miracoli. Solo l’arte ne è capace (...).
Non solo la Murasaki, all’opera della quale dedica struggenti pagine, ma anche Shonegon Sei, autrice delle “Note del guanciale”, una sorta di zuihitsu (scritti di circostanza che ogni uomo e ogni donna compilava prima di andare a dormire e riponeva poi sotto il guanciale) è un’autrice di riferimento per conoscere un mondo così lontano dal nostro.
Si termina con l’accettazione di questa differenza come dato di fatto, l’autore, come scrive Giorgio Amitrano (i più lo conoscono perché è il principale traduttore di Murakami Haruki) nella postfazione del libro, Nooteboom oscilla tra sconfitta e riscatto: un riscatto garantito da una letteratura millenaria, dove i personaggi sono caratterizzati così bene da risssumere la condizione umana universale.
“Se mai potessi avere un’altra vita, dovrebbe essere in un paese con una scrittura diversa. Valore aggiunto: la visione estetica di un segno che, tramite il suo disegno, oltre al significato viene a significare qualcos’altro, afferma, evoca, sho, calligrafia. Vorrei fosse possibile, ma non lo è, non avrò quest’altra vita, ho già raggiunto l’età del «troppo tardi». Niente di cui lamentarsi, anche il «mai più» ha i suoi fascini amari”.