Trilogia di New York
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Intrigo senza volto
…”New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine, che lo lasciava con la sensazione di essersi perduto, non solo nella città, ma anche dentro di se”…
Una metropoli abietta e miserabile in cui vagare senza meta, un nessun luogo in cui perdersi con la sensazione di essere se stessi in quel niente, questo il respiro definente i tre brevi romanzi che compongono la “ La Trilogia di New York “, uno stato di precarietà e solitudine persistente, all’ inseguimento di una flebile traccia nel soffio impercettibile di un reale enigmatico.
Uno scrittore sotto pseudonimo vestito da detective sulle tracce di un soggetto potenzialmente pericoloso si immedesima nel protagonista della propria invenzione letteraria, l’ estenuante pedinamento di un uomo seduto in una stanza impegnato nella compilazione di un taccuino, con la sensazione di essere a propria volta spiati e sorvegliati, uno scrittore scomparso riabilitato dall’amico d’ infanzia e da lui sostituito in seno alla propria famiglia.
Ciascuno dei protagonisti intrattiene con se stesso un dialogo esteso a un senso di vuoto e di non appartenenza, una ricerca che indossa panni diversi invertendone i ruoli, una camaleontica attesa di niente per ribadire l’ ovvio, verità amare, acque torbide, prosciugati silenzi, dubbi ingravescenti, soffermandosi su un’identità smarrita, immagini difformi create e allocate all’ interno di se’.
Tra reale e immaginario incombono un rimugino malinconico in una frammentarietà evidente, una ricerca focalizzata su se stessi e la propria storia, mentre c’è chi ci ricorda chi siamo.
A distanza di anni riemergono volti, protagonisti ignari l’ uno dell’ altro, che hanno soggiornato altrove, fluttuando all’ interno delle parole nell’immagine di un finale diverso, sostituendosi ai personaggi stessi
…” fingendoci capaci di comprenderli perché comprendiamo noi stessi”...
La solitudine li investe arrivando a
…” non pensare più a se stessi come a qualcosa di reale”…
vivi ma senza più amici, sopravvissuti a se stessi, una parte già morta, quella
…” parte che non non si vuole che torni a tormentarci”...
E allora un prima e un dopo incombono, una trasformazione che porta in nessun luogo, privati di tutto, a non essere niente, quante cose scompaiono senza lasciare traccia.
Può succedere che l’ osservazione prolungata dell’ altro rifletta se stessi come in uno specchio, che la frequentazione a distanza avvicini carpendo i segreti altrui, anticipandone le mosse, come se appartenessero un poco a se’, perché
…” entrare nell’ altro è un po’ come entrare in se stessi”...
Ciascuno può continuare a dialogare con il proprio se’, a rievocare l’ altro ricostruendone la storia, costruendone un’ altra, convivere in un silenzio necessario per vivere, trasferirlo in una sorta di traslato di se stesso, ma
…” Nessuno può sconfinare in un altro, per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso”…
In questo stato protratto di non evidenza tutto quello che è stato si riduce a una piccola frazione di nulla, il silenzio obbligato, la morte necessaria, uno stato di finzione per raccontarsi una narrazione che prevede il silenzio, altrove ci si ritrova in nessun luogo
…” era giunto alla fine di se stesso, adesso lo sentiva, era come se in lui si fosse manifestata una grande verità, non restava più niente. Quante cose stavano scomparendo, era difficile conservarne traccia”…
“ La trilogia di New York “ è un ‘opera costruita su un filo sottile, le tre storie, seguendo il modello delle detective-stories, sconfinano in un giuoco di specchi e di incastri con escursioni metaletterarie su scrittura e letteratura ed evidenti influenze del postmodernismo in una narrazione che abbandona la semplice trama per dissertare su destino, solitudine, arte, letteratura, identità, smarrimento, tratti autobiografici, sconfinando nell’ allucinogeno e nel surreale in una metropoli senza volto popolata da oggetti e persone infrante.
La lettura si popola d’ altro, sensazioni, emozioni, riferimenti, una scrittura densa, limpida nella proprio mostrarsi e complessa nel significato d’ insieme.
Ciò che pare non è, ciò che è potrebbe non essere o risiedere altrove, il reale assume contorni diversi, molteplici volti che riportano a un unico volto .
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A metà tra noir e surrealismo
Da parecchi anni intendevo leggere un'opera di Auster, e ho scelto di iniziare da quello che forse è il suo titolo più noto, "Trilogia di New York", una raccolta composta da tre novelle prima pubblicate singolarmente. E la scelta di accorparle è stata senza dubbio corretta, visto che le diverse storie vanno a comporre un grande gioco di specchi in cui personaggi, luoghi e vicende si ripetono uguali eppure diversi, per qualche piccolo dettaglio. Forse non la lettura più semplice per approcciare un nuovo autore, ma la ritengo una buona scelta per capire subito se la sua prosa particolare piaccia o meno.
Nel mio caso, stilisticamente ci siamo senza problemi, mentre sul piano del contenuto ho non poche riserve; questo perché il sottogenere hard boiled -quindi le storie dalle tinte fosche, con l'investigatore tormentato circondato da donne avvenenti- non mi piace per nulla. Pur volendo parlare di tutt'altro, questo titolo alla fin fine è un noir di stampo classico, e questo ha decisamente influito sulla mia capacità di apprezzarlo, soprattutto nella seconda e nella terza novella. Ma vediamo per sommi capi quali sono le vicende narrate, premettendo che tenterò di essere il più chiara possibile, a differenza del caro Paul.
"Città di vetro" (il migliore tra i tre racconti, a mio parare) racconta dello scrittore Daniel Quinn, scambiato per un investigatore privato e in quanto tale assunto da una coppia per pedinare l'ex carcerato Peter Stillman, che i due temono possa far loro del male. In "Fantasmi" vediamo invece un vero detective noto come Blue impegnato a sorvegliare un certo Black, uomo dalla vita quotidiana decisamente placida. Infine, "La stanza chiusa" viene narrato in prima persona da un altro scrittore, del quale però non scopriamo mai l'identità, che si trova a prendere pian piano il posto dell'amico e collega Fanshawe -improvvisamente scomparso- nella sua vita, e nel suo matrimonio con la moglie Sophie.
Come si può intuire già da questi brevi sunti, le trame presentano tantissimi elementi in comune, come le ripetizioni dei nomi, le assonanze tra le storie individuali dei diversi personaggi (per tanti aspetti, intercambiabili tra loro) o la massiccia presenza di citazioni ed aneddoti. In sostanza le tre novelle sono talmente simili da poter essere valutate come una sola grande narrazione, che potremmo quasi riassumere utilizzando i loro stessi titoli: una storia di persone sfuggenti come fantasmi, rinchiusisi in stanze buie, all'interno della città di vetro ossia New York.
Pur non riuscendo proprio ad apprezzare la tipologia di storia raccontata, ho gradito molto lo stile di Auster, potente e colto, nonché ricchissimo di rimandi meta-narrativi. Mi sono piaciute a loro modo anche le frequenti digressioni, che spezzano sicuramente il ritmo della narrazione ma permettono anche di includere dettagli e riflessioni sull'origine del linguaggio, sul significato della fede e sulla perdita della propria identità. Valutare i personaggi d'altro canto sarebbe del tutto inutile, dal momento che sono quasi unicamente delle maschere dietro le quali si cela lo stesso autore.
Forse da questo commento non è facile da intuire, ma questa rientra tra le letture più bizzarre e stranianti degli ultimi anni. Non mi ha però tolto la curiosità di leggere altro del caro Paul, che in un genere diverso credo potrebbe rendere al meglio.
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Perdermi, perdersi.
«La città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore. Il mondo era fuori di lui, gli stava intorno e davanti, e la velocità del suo continuo cambiamento gli rendeva impossibile soffermarsi troppo su qualunque cosa. Il movimento era intrinseco all’atto di porre un piede davanti all’altro concedendosi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo.»
Tre sono i racconti che compongono la “Trilogia di New York” di Paul Auster. Seppur pubblicati separatamente, “Città di vetro”, “Fantasmi”, “La stanza chiusa”, danno vita ad un’unica storia che rappresenta – come asserisce l’autore – un diverso stadio di consapevolezza.
A far da scenario a tutte e tre le vicende è New York, una città con i suoi caotici silenzi, con i suoi misteri e con le sue mille voci inascoltate tra solitudine e alienazione. È il luogo, cioè, perfetto all’interno del quale perdere le coordinate e al contempo perdersi. Daniel Quinn, scrittore che divide il suo io in William Wilson, pseudonimo di cui si avvale per firmare le sue opere e, Max Work, di fatto detective protagonista di queste, viene assoldato, nel primo episodio, da Virginia Stillman in vece del marito, per assumere un’ulteriore personalità, quella di Paul Auster. L’obiettivo è quello di indossare i panni di un investigatore privato per seguire i passi del suocero, per anni recluso in carcere, adesso tornato in libertà. L’anziano è un pericolo perché potrebbe in qualunque momento e in qualsiasi modo mettere a repentaglio l’incolumità dell’omonimo Peter Stilman. Eh sì, perché padre e figlio portano lo stesso nome e sono legati da un passato fatto di almeno nove anni di vessazioni e segregazione. Nel momento in cui Quinn decide di indossare questi panni, finisce con il perdersi completamente. Spezzato tra quattro volti e quattro personalità, perde completamente di vista chi è.
In “Fantasmi” ha inizio un’altra inchiesta investigativa che segue per molti versi la precedente essendo impostata con una linea narrativa molto simile ed essendo simile anche il piano metaforico nonché la psicanalisi connessa. In questo secondo racconto a prevalere è la visione fatalista che persiste e si afferma senza possibilità alcuna di essere contestata.
“La stanza chiusa” vede nuovamente il prodigarsi delle gesta di un investigatore per rintracciare Fanshawe, scrittore presuntivamente deceduto o forse ancora vivo. In questo caso vi è un’evoluzione di quanto già precedentemente letto perché il personaggio che nel primo testo faceva dell’uomo da pedinare la ragione della sua esistenza, in questo, vi si sostituisce. Il risultato è quello di uno spossessamento di se stessi che finisce con il raggiungere la totale dissoluzione del proprio io.
Per l’intero flusso del componimento il lettore è spiazzato e messo in discussione da una realtà rappresentata che è interamente percepita quale assurda, irreale. In verità l’obiettivo principale del romanziere è quello di trasportarci in quella che è la quotidianità di chi fa dello scrivere il proprio mestiere e dunque di far soffermare l’attenzione su quel dato imprescindibile che porta ad una totale estraneazione dalla dimensione comune per vivere con distacco, quasi per riflesso altrui. Effetto, questo, a cui conseguono le più nefaste conseguenze.
Un volume stratificato, riflessivo, complesso, che chiede di essere letto con sguardo attento e che chiede di immedesimarsi, di mostrare empatia. Un libro che suscita interesse e che non delude le aspettative di chi decide di avvicinarvisi.
«Non dormiva più con la luce accesa, e da molti mesi aveva smesso di ricordare i suoi sogni.»
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KAFKA A NEW YORK
“New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé.”
I tre racconti (o romanzi brevi) della “Trilogia di New York”, pur pubblicati separatamente alla loro uscita, fanno parte di un “unicum” difficilmente distinguibile. «In sostanza – afferma lo stesso Auster – le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza». “Città di vetro”, “Fantasmi” e “La stanza chiusa” – aggiungo io – sono tutti e tre pervasi da una identica tensione speculativa, sono ambientati nella medesima città e prendono persino tutti e tre in prestito lo stesso schema narrativo (vale a dire la detective story, trasfigurata in un geniale meccanismo kafkiano di impronta metafisica). Iniziamo dalla metropoli, la New York del titolo. New York è un’ambientazione che sta appartata, quasi in disparte, ma si fa ugualmente sentire, eccome. E’ una città in cui ci si sente irrimediabilmente fuori da se stessi, simbolo della solitudine e dell’alienazione umane, luogo dove ritrovarsi e perdersi all’infinito. E perdersi è proprio quello che fa Daniel Quinn, che già all’inizio del primo racconto è diviso tra tre personalità: la sua, quella di William Wilson (nome emblematico, che rimanda all’omonimo racconto di Poe), il nome con cui firma i suoi romanzi, e infine quella di Max Work, il detective privato protagonista dei romanzi (“Nella triade di sé che Quinn era diventato, Wilson fungeva da ventriloquo, Quinn stesso era il pupazzo, e Work la voce animata che garantiva uno scopo all’impresa”). Quando decide di assumere addirittura una quarta personalità (l’investigatore Paul Auster), e si cala anima e corpo nell’indagine poliziesca commissionatagli da Virginia Stillman (rintracciare e pedinare il suocero che, uscito di prigione, cercherà probabilmente di uccidere il figlio), finisce per smarrire definitivamente il proprio io in preda a una strana forma di follia e trasformarsi progressivamente in uno di quei tanti barboni che aveva visto innumerevoli volte nelle sue peripatetiche escursioni per la città, senza più casa, soldi, identità (guardandosi allo specchio non si riconosce più) e nessun altro scopo nella vita se non quello di scrivere sul taccuino rosso che – unica cosa rimastagli (persino i vestiti alla fine getta via) – continua a portarsi appresso (“Cosa succederà quando non vi saranno più pagine nel taccuino rosso?”). Qui le strade di New York, lungo le quali Quinn pedina Peter Stillman, sono citate una per una, con ossessiva pedanteria, in una topografia la cui massima oggettività contrasta curiosamente con l’assurdità quasi surreale della vicenda.
Il secondo racconto prende spunto da un’altra inchiesta investigativa, per molti versi simile alla precedente, se non altro perché dalla registrazione oggettiva e fedele dei movimenti di un’altra persona ci si sposta gradualmente su un piano psicanalitico e metaforico: il protagonista Blue, ingaggiato da White, si cala infatti talmente in profondità nei panni dell’individuo che spia dalla finestra (tale Black) e di cui segue i rari spostamenti da identificarsi totalmente in lui e, come in uno specchio, vi vede alla fine riflessa la propria vita sprecata (Blue ha rinunciato a tutto, persino alla fidanzata, per dedicarsi anima e corpo al caso affidatogli) e si accorge per di più di essere stato per tutto il tempo tenuto a sua volta sotto sorveglianza. In questa condizione di deprivazione dell’io che vive un’esistenza riflessa si può leggere – kafkianamente – l’assoggettamento dell’uomo a un fato misterioso e inspiegabile. Anche in questo racconto, come nel primo, a un massimo di descrizione realistica corrisponde un minimo di verità e l’assenza di una qualsivoglia comprensibilità del senso ultimo della storia.
Nel terzo racconto si assiste a un ulteriore salto di qualità. Va da sé che il protagonista si improvvisa anche lui detective per rintracciare Fanshawe, l’amico scrittore misteriosamente scomparso, dato per morto ma che lui sa con certezza essere vivo da qualche parte. Se Daniel Quinn faceva dell’uomo da pedinare la sua ragione di vita e Blue arrivava a vedere in lui lo specchio di se stesso, il protagonista de “La stanza chiusa” finisce addirittura per sostituirsi a Fanshawe, pubblicando i suoi libri, sposandone la moglie e adottando il suo figlio. Qui la perdita del concetto si sé raggiunge il suo massimo livello: l’io si dissolve, e al suo posto non rimane nulla a cui appigliarsi. Curiosamente, la stessa sensazione la prova il lettore, al quale non è mai concessa la soddisfazione di trovare un senso alle storie che legge. Tutti i tre racconti infatti non portano ad alcuno svelamento dei misteri che nelle loro pagine hanno contribuito a creare: Quinn “sparisce” nella stanza dove si era rinchiuso (e dove era misteriosamente nutrito da una presenza ignota), Blue uccide Black senza riuscire a comprendere perché gli è stato commissionato il lavoro di sorvegliare il suo uomo (che rapporto c’è tra Black e White? e perché Black ha sulla sua scrivania i rapporti che ogni settimana Blue inviava a White?), di Fanshawe ascoltiamo solo una voce sussurrata attraverso la fessura di una porta ma non veniamo mai a sapere cosa c’è scritto nelle pagine del taccuino rosso in cui egli ha esposto le ragioni della sua scomparsa. L’effetto è disorientante, ma, se si riflette bene, è perfettamente calzante con una filosofia in cui nulla ha senso, in cui cose e persone sono entità sostituibili (non è un caso che nel libro ricorrano più volte i nomi di Quinn, Peter Stillman, Henry Dark e oggetti come il taccuino rosso) e le parole non sono in grado di produrre alcun significato.
Quest’ultima considerazione ci porta a quello che è l’aspetto più propriamente meta-letterario della “Trilogia”. Il romanzo di Auster è, a ben guardarlo, una amara riflessione sul ruolo alienante della scrittura e sul posto che lo scrittore ha nel mondo. Sia Quinn che Blue e Fanshawe fanno della scrittura la loro ragione di vita e nella scrittura (anche solo di banali rapporti da investigatore privato) si dannano irreparabilmente. Auster sembra dirci che lo scrittore è l’alienato per eccellenza, che vive un’esistenza riflessa, staccata dalla realtà (si pensi al dialogo tra Black e Blue travestito da mendicante intorno a Whitman, Thoreau e Hawthorne e alla definizione dello scrittore come colui che “non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c’è veramente”), colui che non ha più scopo (come Fanshawe) non appena la sua opera è terminata. Persi tutti i punti di riferimento (anche quello sul ruolo salvifico dell’arte), messi di fronte a un destino incomprensibile e inconoscibile, negata loro ogni catarsi spirituale, ai personaggi di Auster, come tanti Joseph K., non rimane altro che consegnarsi alla morte come all’unica, estrema possibilità di salvezza: non un autentico afflato di redenzione, ma solo una ansia febbrile e irrazionale di dileguarsi nel nulla.
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ALLA RICERCA DELL'UOMO
Immergersi nelle tre storie partorite dalla penna di Paul Auster non significa semplicemente passeggiare e respirare l'aria della grande mela, bensì addentrarsi nei meandri più torbidi ed oscuri della psiche umana.
La connotazione di una New York cupa e spersonalizzante è defilata, teatro secondario in cui si collocano tutte le figure che calcano la scena dei racconti. Il cuore pulsante voluto da Auster è l'essere umano, colto nei suoi momenti di maggior smarrimento e avulsione dal mondo, un uomo che si è perduto alla ricerca di sé, percorrendo strade buie e infestate di pericoli.
Il fluire narrativo è disseminato di insidie, in quanto man mano che il personaggio si perde in vortici più o meno reali, il lettore prova un senso di vuoto ed uno sgretolamento dei capisaldi iniziali percepiti.
Non è semplice rappresentare il senso di annichilimento, di insoddisfazione e di continua ricerca che spinge l'uomo ad evadere dai confini della propria vita familiare e sociale, eppure Auster vi riesce nelle sue storie a tratti surreali, strampalate, fuori dai canoni comuni cui potremmo essere avvezzi.
Un'opera rappresentativa dello stile letterario americano di oggi, dove la figura umana è scissa essere e voler essere, tra reale e immaginario, dove il tema morale diviene campo di battaglia tra giusto e sbagliato.
Una lettura impegnativa perchè i percorsi sono complicati ed i messaggi volutamente criptati dall'autore a somiglianza delle infinite interpretazioni cui è soggetta la vita.
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New York, il nessun luogo
Quando da piccolo salivo sulle giostre provavo sempre un certo timore, finché non smisi del tutto. Preferivo restare fermo dove ero a guardare gli altri girare nel vortice. A volte salivo per dimostrare a me stesso chissà cosa e prima che la ruota iniziasse a girare davo sempre una rapida occhiata a quello che mi stava intorno. Volevo tracciare i dettagli di tutto, fermare le immagini e stamparmele bene in mente perché sapevo che a breve, dentro tutto quel girare, ogni forma avrebbe perso i contorni, che non sarei più riuscito a distinguere le figure e il luogo in cui mi trovavo prima di salire, che non sarei più riuscito ad aggrapparmi a nulla, che mi sarei perduto dentro tutto quell'inesauribile movimento. Allora mi consegnavo al buio, chiudendo gli occhi, fino a che la velocità si stabilizzava e ogni cosa tornava definibile. Allora ero felice di uscire e tornare alla mia dimensione, come se fossi sopravvissuto a qualcosa.
In questa Trilogia, New York è una giostra inesauribile e frenetica che plasma la realtà rendendola claustrofobica. I grattacieli azzannano gran parte dello scenario mentre i personaggi principali vagano attraverso un'immensa varietà di strade e quartieri, intrappolati dentro qualcosa di cupo e indefinibile.
Dentro queste tre storie ognuno è un detective, ognuno è alla ricerca di qualcosa mentre tutto attorno ruota vorticosamente. I protagonisti abbandonano la propria dimensione, si distaccano dalla scia della loro vita per seguire l'ombra di enigmatici e misteriosi personaggi secondari.
“Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più”
Dentro questo labirinto letterario è l'identità dei personaggi a smarrirsi sia all'esterno che all'interno di loro stessi. In primis attraverso lo sfacelo e la disarmonia urbana di New york e infine attraverso la tangibile oscurità introspettiva sepolta dentro l'anima dei protagonisti. Si finisce col brancolare nel buio, ognuno perde le tracce, si insegue qualcuno ma ci si sente inseguiti, i ruoli si scambiano di continuo mentre tutto ciò che li circonda ruota senza un perchè. Ogni racconto sembra collegato da un filo immaginario e difficilmente percepibile.
Ognuno sale sulla giostra, i contorni si sfaldano, ogni cosa diventa amorfa; nessuno scende.
Lettura ipnotica dalla quale esco piacevolmente stordito. Dopo aver terminato l'ultimo racconto ho pensato per un attimo di ritornare sul secondo, di mettermi sulle tracce dei personaggi passati per cercare un collegamento tra le varie storie, di ripercorrere la Trilogia al contrario, di immedesimarmi a tal punto da diventare quasi il personaggio di un quarto racconto che non esiste, pronto a perdermi nel labirinto di misteri.
Poi, pian piano, tutto si è stabilizzato, sono sceso dal libro, ho riconosciuto i contorni e le pareti di casa.
Ho posato il libro nello scaffale della libreria lasciando che la mente navigasse ancora un po' tra le riflessioni e i dubbi. Infine mi sono accontentato del piacevole smarrimento che questa cervellotica lettura ha saputo donarmi.