Sulla pietra
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Adamsberg e i dolmen
Il commissario Jean-Baptiste Adamsberg, lo “spalatore di nuvole” del XIII arrondissement, ha dovuto soggiornare per qualche tempo in Bretagna per chiudere un brutto caso di un omicida seriale. Qui ha collaborato con il suo collega Frank Matthieu di stanza a Rennes e ne è diventato amico. Cenando con lui in una rinomata locanda di Louviec, paesino di poche anime vicino a Combourg, aveva fatto la conoscenza con Josselin de Chateaubriand forse erede del famosissimo letterato e uomo politico del XIX secolo e suo sosia sputato. Ma aveva scoperto pure che il paese era in agitazione perché si diceva che fosse ricomparso il fantasma dello Zoppo (un antico visconte di Combourg) e che la sua comparsa avrebbe portato, come quattordici anni prima, a qualche morto ammazzato.
Meno di un mese dopo, ritornato a Parigi, legge su un quotidiano che Gaël Leuven, il guardiacaccia di Louviec, un omone grosso come un toro e altrettanto rude, che lui aveva intravisto quel giorno nella locanda, è stato brutalmente assassinato. Indiziato principale proprio Chateaubriand, da sempre bersaglio dell’acredine di Gaël, ma nessuno di coloro che lo conosce crede che sia possibile che l’uomo, mite e schivo, possa essere l’autore del crimine, efferato quest’ultimo. Ma Adamsberg non può intromettersi nella vicenda; è fuori dalla sua giurisdizione. Tuttavia è il Ministero stesso che vuole scongiurare che uno Chateaubriand, seppur solo lontanissimo discendente dell’autore di “Memorie d’Oltretomba” possa essere accusato di omicidio senza schiaccianti prove a suo carico. Così il Sottosegretario in persona lo chiama e gli ordina di tornare a Louviec per affiancare la polizia locale e indagare sul misfatto.
Nel frattempo i morti, uccisi tutti alla stessa maniera, un paio di fendenti al torace con un coltello di marca lasciato dentro la ferita, si accumulano e Adamsberg (pur affiancato dal valido Matthieu), brancola nel buio, tra ipotesi fantasiose e divagazioni a stile suo, tentando di fare ordine, anche meditando sulla pietra in un dolmen che si erge nei pressi del paese. Stavolta però, dovrà stare più attento del solito: qualcuno vuole ucciderlo per punirlo della sua ingerenza,
Il Commissario Adamberg è uno dei personaggi più iconici del panorama poliziesco francese e l’autrice, Fred Vargas, è un’abile narratrice che, con stile sempre impeccabile, alterna accattivanti descrizioni, incursioni ammiccanti al paranormale (prontamente smentite in chiusura dei romanzi), intrecci investigativi complessi, ma coerenti, con introspezioni nello stato d’animo delle persone, in particolare del suo personaggio principale. Quindi è difficile che un libro suo risulti insoddisfacente o, peggio, sgradito.
Però, se dobbiamo fare le pulci a quest’ultima storia (e non si tratta solo di un modo di dire, visto che questi afanitteri saranno uno degli elementi chiave per la soluzione del caso) non possiamo non rilevare come “Sulla pietra” sia un’opera decisamente inferiore a quelle che l’hanno preceduta.
Ne “Il morso della reclusa” l’A. aveva in qualche modo palesato come nell’efficientissima squadra del XIII arrondissement qualcosa cominciasse a non ingranare più al meglio: i dissidi tra Adamsberg e il suo fido vice Danglard erano giunti al punto da far ipotizzare un divorzio tra i due; alcuni altri collaboratori erano passati a occupare ruoli di secondo piano; la vicenda stessa era risultata ingarbugliata e il Commissario aveva dimostrato una certa stanchezza nel suo ruolo. Insomma tutto aveva fatto ipotizzare l’intenzione dell’A. di far restare quel nono libro l’ultimo della fortunata serie. E forse, sarebbe stata una scelta felice.
Questo decimo romanzo, uscito oltre sette anni dopo il precedente, appare, sin dall’inizio, come una operazione commerciale per sfruttare la scia, ancora attraente, della fortunata saga, ma la storia è abbastanza raffazzonata, confusa. Nella vicenda si intersecano piccole vendette paesane a intrighi e delitti compiuti dalla criminalità organizzata, minacce mafiose alle forze dell’ordine e misere superstizioni come scusa per truffare i creduloni. A ben vedere, infatti, per mettere assieme questa storia, l’A. è stata costretta a cucire assieme, e non sempre in maniera efficace, quattro o cinque vicende diverse, apparentemente slegate le une dalle altre. Non tutti i passaggi appaiono logici e conseguenziali. Non tutti i personaggi coinvolti appaiono convincenti e ben disegnati. Non tutte le deduzioni sono coerenti. Anche lo “spalatore di nuvole” appare confuso e ondivago.
La storia in sé procede lentamente e il crimine seriale che dà l’avvio alle indagini spesso si perde sopravanzato da altre vicende che, più che interagire con il filone principale, confondono e depistano.
La stessa squadra di Adamsberg sul campo, ridotta a soli cinque elementi (forse anche per evitare domande sulla tenuta dei rapporti interni) è posta sullo sfondo della vicenda, senza che le singole personalità riescano a emergere, se escludiamo l’atleticità da supereroe della Retancourt e l’abilità al computer dell’ipersonne Mercadet. Ma anche per loro dette caratteristiche appaiono più un distintivo caricaturale che natura rappresentativa e qualificante della persona.
Ho avuto la netta sensazione che, per inventarsi la trama, l’A. sia andata a saccheggiare idee precedentemente utilizzate e già abilmente sfruttate, e le abbia utilizzate per allungare un po’ il brodo del racconto. Solo per citarne alcune: le pulci di “Parti in fretta e non tornare”; l’interpretazione fuorviante di certe espressioni in francese (“Nei boschi eterni”); la vendetta per i torti subiti in passato (“Il morso della reclusa”). Insomma, sotto certi aspetti questo romanzo sembra una sorta di coperta patchwork con tanti quadratini tagliati via da altri teli e cuciti assieme, ma senza troppa convinzione.
Lo stile è indubbiamente buono, e non ci si potrebbe aspettare di meno dalla Vargas, ma anche sotto questo aspetto si nota una certa stanchezza, un “tirar via” alcuni passaggi.
In definitiva, si tratta di un romanzo non memorabile, ma, soprattutto, evitabile, cioè che non aggiunge nulla alla serie, ben più valida, dei libri che lo hanno preceduto e, forse, fa un cattivo servizio alla stessa Autrice.
Indicazioni utili
- sì
- no
Sulla pietra di un Dolmen
Fred Vargas torna , dopo 7 anni, con un giallo della serie del commissario Adamsberg.
Il commissario,un po’ svagato, dotato di un forte intuito, generoso, animalista (nel precedente Il Morso della Reclusa salva un piccione, qui un riccio) e difensore dei poveri, viene incaricato di seguire un caso, lontano dal suo distretto parigino, nelle ombre della Bretagna. Così, lasciando a capo del suo commissariato il fido Danglard, Adamsberg si sposta con tutta la sua squadra a Louviec, dove avvengono inaspettatamente una serie di omicidi, tutti annunciati dal Fantasma dello Zoppo che si aggira per il paese, con la sua camminata claudicante, poco prima che avvengano i delitti.
Questa volta ad Adamsberg toccherà dipanare una matassa intricata, e si affiderà come al solito alla sua perspicacia, e alle sue “bolle”, che come arrivano devono subito essere prese in considerazione altrimenti velocemente spariscono.
“Sono le bolle, le idee vaghe. Stanno risalendo dal fondo melmoso. Si muovono, si incrociano, si scontrano. Non posso permettermi di trascurarle troppo a lungo, altrimenti torneranno a rintanarsi in fondo al lago.”
E in questo caso così difficile anch’esse “erano numerose, scisse, a tratti quasi ostili tra loro o, al contrario, troppo unite per vederci chiaro, gli davano del filo da torcere.”
E Adamsberg, riflettendo disteso al sole “sulla pietra” di un dolmen che sorge nei pressi di Louviec, spende buona parte del suo tempo ad analizzarle e rimetterle in ordine, perchè abbiano un senso logico.
E di filo da torcere non gli manca, tanto che, durante l’indagine, viene messa in pericolo la sua vita e soprattutto quella dell’unica donna della sua squadra, il tenente Retancourt, un colosso di femmina difficile da sopraffare.
Tra i soliti personaggi che i lettori di Vargas conoscono bene, qui se ne aggiungono anche altri molto caratteristici, Mael “il gobbo” , Josselin de Chautebriand, sosia e forse pronipote del nobile visconte e famoso scrittore, e Jonas, il proprietario di una locanda sempre disponibile a cucinare per tutti gli avventori e soprattutto per la squadra di Adamsberg.
Nonostante il thriller e i colpi di scena, il romanzo procede lentamente, e i dettagli sono così tanti, forse troppi, che spesso sfuggono al lettore. L’assassino, nonostante la fitta trama, è facilmente intuibile e il movente, il rancore, verosimile, ma fragile.
Mescolando leggenda e realtà, l’atmosfera misteriosa ci cattura fino alla fine, in una lettura tutto sommato piacevole, anche se, personalmente, trovo che manchi quel tocco di originalità che ha sempre distinto i romanzi di Vargas.