Nessun testimone
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Cambio di rotta?
In questo romanzo la George, pur rimanendo fedele alla squadra di investigatori della Met che la accompagna in innumerevoli romanzi ha cambiato decisamente rotta. lo stile è sempre lo stesso: rassicurante, mai sopra le righe, con le indagini che spesso fanno solo da contorno alle vicende umane dei protagonisti: investigatori o indagati che siano. Un modo di affrontare i gialli forse un po' antico, ma che a me piace alternare con romanzi un po' più diretti . In questo caso, invece del solito delitto che si svolge in un contesto campestre, in un paesino dove tutti si conoscono e dove proprio per quello maggiori sono le ragioni di attrito che covano sotto la cenere, si sposta verso un ambientazione che finora non aveva mai toccato. La George si addentra nel complicato mondo delle bande giovanili, del degrado urbano e infine dei serial killer. Devo dire che ho trovato questo romanzo piuttosto ingenuo e poco adatto allo stile di questa scrittrice. In ogni caso non da scartare e comunque gradevole da leggere soprattutto nelle parti in cui vengono alla luce l'umanità e le debolezze dei protagonisti, che ho trovato di gran lunga le pagini migliori, anche se con un pizzico di cinismo ci si potrebbe vedere un modo per trattenere i lettori, un po' annoiati dalla storia principale.
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GIOVENTU' BRUCIATA
La vicenda è ambientata all’epoca della Thatcher ma la precisazione non è importante. Lo sfondo dell’epico scontro fra il bene e il male ai nostri giorni infatti non può essere che la metropoli contemporanea, assunta come macrocosmo simbolico di una società inquinata dalle fondamenta: in “Nessun Testimone” le vittime del serial Killer, chiamato Fu, sono dei giovani bruciati, dediti alla prostituzione e al furto, già padri a tredici anni, figli della periferia miserabile di Londra, quelle che di tanto in tanto si fa sentire per i subbugli nei reportage televisivi. La scrittrice Elizabeth George, considerata una delle regine del giallo di matrice anglosassone, opta per la prassi consueta del montaggio alternato: come se assistessimo a una partita di ping pong, da un lato abbiamo il punto di vista dell’assassino, dall’altro quello della squadra dei detective incaricati delle indagini. Lo sguardo dell’autrice consente di penetrare nel delirio del mostro ma ogni tentativo di razionalizzazione sfugge: dal probabile trauma scaturiscono la psiche disturbata e il bisogno di dare sacralità con un macabro rito ai delitti. Parallelo all’universo sconvolto del criminale vi è quello altrettanto malato e quindi complice della città: centri di recupero, alberghi per pedofili, giornalismo d’accatto costituiscono il contesto torbido con cui è costretta a combattere la “virtù” pragmatica dei buoni, l’ispettore Lemley, Barbara Havers e il sergente di colore Nkata. La sfida richiede lucidità, per conservare la quale occorre sia rattenere l’indignazione morale sia mettere in gioco il proprio problematico privato. Fin qui niente di particolarmente nuovo, se non fosse per la dilatazione dei tempi: nel corso della lettura la tensione si allenta, si smarriscono a volte perfino le file dell’intreccio ma ne emerge un quadro chiaro del disagio urbano contemporaneo. Il giallo classico ha perso i suoi connotati per diventare l’erede della narrativa verista: nel vecchio maniero non arriva più il mago dell’intuizione alla Conand Doyle o all’Agatha Crhristie, felice di giocare la partita a scacchi con il diabolico avversario.